Alla scoperta dei frutti dimenticati

Nel romanzo breve Una golosità, di Muriel Barbery, c'è un critico gastronomico in punto di morte che si accorge di aver cercato per tutta la vita un sapore assaggiato durante l'infanzia senza mai riuscire a ricordare di cosa si trattasse. È un rischio che si può correre se non si conosce la Festa dei frutti dimenticati. Sull'Appennino tosco-emiliano c'è un piccolo centro, Casola Valsenio, che dedica una sagra - anche se è riduttivo chiamarla così - a tutte quelle varietà di frutta che non vengono più coltivate nelle campagne italiane. E spesso non vengono neppure più raccolti (e commercializzati) i frutti che crescono allo stato selvatico.
A Casola invece è nato un centro che ha il compito di salvaguardare l'esistenza delle tante specie arboree e erbacee in via d'estinzione. In tempi di globalizzazione, l'orto botanico Rinaldi Ceroni è un tempio prezioso del seedsaving, e vicino a esso è stata realizzata anche la Strada dei frutti dimenticati, un percorso con otto oasi in mezzo alle colline che ospitano circa cinquanta tipologie di piante. Di questi musei all'aperto, precursori di Terra Madre, lo Stivale è pieno. C'è la Collezione archeologica arborea di Città di Castello (Perugia), il Frutteto dei frutti dimenticati di Nazzano (Roma) e l'Orto omonimo a Pennabilli (Pesaro Urbino), solo per citarne qualcuno.
Negli anni '90 attorno alla realtà scientifica di Casola è nata una festa che riunisce molti produttori da tutta Italia. Frutta fresca, ma anche liquori, confetture, che luccicano di colori in mezzo alle solite castagne e noci. Protagoniste non sono solo giuggiole, melagrane, nespole e mele cotogne. Che dall'ortolano ben fornito ancora si trovano. Ma azzeruole, pere spadone, cornioli e corbezzoli. E magari uva spina. La sagra si è tenuta lo scorso fine-settimana.
La biodiversità è talmente ricca che negli ultimi anni gli chef dei grandi ristoranti, alla ricerca costante di nuovi sapori, hanno iniziato ad approfittarne. Un risotto di pere volpine è cucina creativa? Dipende dal punto di vista. Al ristorante Fava di Casola Valsenio, 0546.73908, che da cinquant'anni ha fatto sue ricette con le bacche e i pomi selvatici, è piuttosto tradizionale. Nel menu della cuoca Catia Fava è normale trovare tortelloni di patate in salsa di prugnoli piuttosto che insalatine di mele selvatiche, azzeruole, giuggiole e sorbe.
«Tutti pensano che la frutta sia valida solo per i dessert - spiega Catia -, ma non è necessariamente così. Noi abbiamo un bagaglio di tradizioni che riguardano ingredienti che non usiamo più. È bastato, negli anni, riabilitarli. E adattarli ai palati moderni. La poverissima zuppa di castagne è stata modificata, rispetto al passato ed è tornata a vivere».
Catia ha iniziato da piccola, a interessarsi di frutti "strani", erbe e fiori da cucinare. Quando era studentessa dell'istituto agrario di Casola. «Nel giardino officinale c'erano liquirizia, pimpinella, acetosella. Mi sono interessata a queste cose. Poi, quando già lavoravo al ristorante di famiglia, ho provato a inserire le corniole, dolcissime, in un antipasto. Sotto salamoia. E lì è iniziato tutto. Mele cotogne, zuppa di malva, migliaccio (con sangue di maiale, volpine, cioccolato e mele gialle) sono diventati i nostri piatti».
Nelle marche invece ecco Lucio Pompili, chef e titolare del Symposium a Cartoceto, 0721.898320: «Il recupero di questi frutti dimenticati è dovuto al fatto che molti cuochi oggi sono innovatori, perciò ricercatori. E trovare sul territorio prodotti che hanno saltato una generazione di cuochi significa trovare prodotti nuovi e perfetti per il mercato. Molti frutti dimenticati non sono zuccherini come quelli consumati oggi, magari hanno maggiore acidità. Perciò vanno benissimo per una cucina che riguarda carni importanti o pesci grassi. Esempio: preparo una tagliata di Marchigiana con succo di melograno, che dà acidità, e composta di corbezzolo, che invece concede struttura. Oppure prendiamo una pera angelica, la passiamo in padella con lo zenzero. Sarà perfetta per accompagnare un pesce grasso».
Ma è difficile reperire questi prodotti? «Dipende. La pera angelica è ormai un gioiello del territorio marchigiano, altre cose vengono raccolte nei boschi. Rose canine, corniole, more di rovo sono ancora selvatiche. E sono perfette per pietanze selvatiche. Ho dei magnifici galli forcelli. Ho guardato che bacche avevano mangiato e li ho conditi di conseguenza: composta di cotogne e salsa di lamponi».
Walter Eynard del ristorante Flipot di Torre Pellice in provincia di Torino, telefono 0121.91236, è un altro che batte il territorio alla scoperta di erbe, fiori e frutti non comuni: «In questo territorio è normale, perché siamo protestanti valdesi e da sempre siamo costretti sopra i mille metri. Questo significa che tutte le bacche e i frutti selvatici finiscono in tavola. Sorbo rosso, mela a gamba fina, lampone selvatico, rosa canina. Sotto forma di gelatine, perché da noi è preferita alla marmellata. Oppure come accompagnamento: coniglio con rosa canina, maiale al cumino con gelatina di cotogna».
Per saperne ancora di più sui Frutti Dimenticati bisogna telefonare allo 0546.73033 oppure navigare in www.terredifaenza.

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