Palazzeschi, un novellatore "incendiario". Antiletterario, antiaulico e antiaccademico

Lo scrittore fiorentino rimane a cinquant'anni dalla morte un "raccontatore" sui generis Ecco le sue novelle disperse

Palazzeschi, un novellatore "incendiario". Antiletterario, antiaulico e antiaccademico

Ecco un Palazzeschi «sconosciuto». Sconosciuto, s'intende, al grande pubblico, il quale ha presente, della produzione novellistica palazzeschiana, il «Meridiano» Mondadori di Tutte le novelle, curato nel 1975 da Luciano De Maria, con prefazione di Giansiro Ferrata, e più volte ristampato. Questo volume ripropone al lettore la silloge Tutte le novelle del 1957 (allestita con cura scrupolosa da Palazzeschi per il primo tomo della sua Opera Omnia) e insieme l'ultima raccolta, Il buffo integrale (Mondadori, 1966), ovvero il corpus completo dei testi legittimamente autorizzati dall'autore.

Il fatto è che la summa di Tutte le novelle del 1957 ha messo insieme in effetti tutti i pezzi presenti nei libri precedenti (ovvero Il Re bello, Vallecchi, 1921; Il palio dei buffi, Vallecchi, 1937; Bestie del 900, Vallecchi, 1951), con l'eccezione però di nove novelle, incluse nella prima raccolta (Il Re bello) e non più riprese. Sono stati in questo modo esclusi dal canone ufficiale, legalmente accertato, nove pezzi di notevole rilievo. Ognuno distinto da un proprio originale scatto inventivo.

Difficile dire perché sia avvenuto il sacrificio di questi nove testi, condannati dall'autore a entrare nella grande biblioteca dell'oblio, sconosciuti al grande pubblico. Eppure è proprio al cosiddetto grande pubblico che l'antiletterario, l'antiaulico e l'antiaccademico Palazzeschi ama rivolgersi, come confida all'amico Arnoldo Mondadori, da Venezia, il 21 settembre 1958: «In Italia anche al meno letterato finisce per attaccarsi la mania del letterato: brutto vezzo. Vorrei essere amato dalle creature semplici e non discusso dai sapienti di letteratura».

Il Re bello è un'opera curiosa, che riunisce quindici novelle. Esce nel primo dopoguerra, ma riflette l'irrisione eversiva, l'acre gusto caustico e le tensioni sperimentali dell'anteguerra. Vede la luce quando Aldo, dopo il trauma del conflitto mondiale, intende liberarsi del proprio passato per andare oltre e avanti, per procedere su nuove strade. Il che spiega perché nove pezzi su quindici siano lasciati a dormire in pace nelle pagine di una prima edizione presto destinata a essere dimenticata. Aldo non rinnega nulla, ma in buona parte del suo libro d'esordio come novelliere, negli anni successivi, non si riconosce più.

Il lettore curioso può leggere ora queste nove novelle nella mia recente edizione palazzeschiana: Le novelle (pubblicate dall'Università degli Studi di Firenze, Centro di Studi «Aldo Palazzeschi» insieme con Mondadori: il primo volume contiene Il Re bello, Il palio dei buffi, Bestie del 900; il secondo volume invece Tutte le novelle, Il buffo integrale, Novelle disperse). Il «Meridiano» Mondadori 1975 include 82 novelle; la mia edizione ne include 98, dato che offre al lettore tutte le raccolte integrali d'autore, più sette pezzi dispersi, mai raccolti in volume (si arriva a 98, con i nove dimenticati nel volume Il Re bello e i sette dispersi).

Come si caratterizzano i nove testi sacrificati? Sono in ogni caso novelle di taglio brillante in chiave tragico-farsesca, spesso tagliente, come la bellissima e terribile Industria, qualificata «aspra» dallo stesso Aldo, che nel novembre 1912 la propone invano a Prezzolini per «La Voce», come invano propone nel 1913 allo stesso Prezzolini la formidabile poesia I fiori e come invano, sempre a Prezzolini, propone nel 1919 la stampa nelle Edizioni della «Voce» del volume risolutamente antimilitarista Due imperi... mancati. Però Industria piace a Mario Novaro, che la trova «amara» ma la pubblica di buon grado nell'agosto 1913 nella rivista che dirige, «La Riviera Ligure» di Oneglia. L'«industria» del titolo riguarda la compra-vendita di bambini, in un villaggio toscano ai confini con l'Umbria, un borgo naturalmente d'invenzione, come si conviene a un paesino di montagna dove si svolge un simile mercato, con l'acquirente americano che, per ripicca, paga una cifra esorbitante (centomila lire) per un bambino «infelice», secco e gobbo, che la madre, «una donna grassa, di mezza età», tristemente consapevole di offrire merce avariata, è disposta a svendere per cinquecento lire.

Oppure sono novelle che presentano, in ambienti e momenti diversi, spericolate disavventure coniugali, disavventure di amori clandestini, peripezie di eros trasgressivo: come L'anima (1911), sulla castissima e amorosissima moglie candida e fedele, defunta dopo trent'anni di pacifica e felice convivenza matrimoniale, che è stata invece in realtà un'adultera appassionata che per quattro lunghi anni ha tradito il marito fino allo spasimo; oppure come Alla morte non si sfugge (1911), dove la bella Elena, moglie insoddisfatta, abbandona senza battere ciglio marito e figlie; o Per una bella donna (1914), dove Micheline, la protagonista senza età, a quarant'anni rimasta vedova, si rivela d'una bellezza strepitosa e più il tempo passa, più lei ringiovanisce, luminosa amante senza eguali; o come L'ingegnere (1913), dove il narratore (autentico flâneur leopardiano), osservatore disincantato, racconta la storia del bravo campagnolo diventato ingegnere, che vorrebbe sposare prima la sua affascinante affittacamere vedova, poi la figlia di lei, Margherita, abbandonata dal marito, ma finisce, quarantacinquenne, per impalmare felicemente Vera, figlia di Margherita, di modo che al matrimonio si trova in compagnia di tre donne, la sessantenne affittacamere, la quarantenne Margherita, e la candida sposa ventenne. Differente musica intona Il mendicante (1913), racconto breve e aguzzo, su un giovane accattone che all'angolo della strada non chiede danaro, né aiuti pratici, ma domanda opinioni: rifiuta le facili idee comuni e s'interroga sul senso della vita, perplesso e disponibile, senza punti di riferimento, senza bussola, senza sapere che cosa pensare.

In altri casi, dinanzi ai disinganni del vivere quotidiano e agli oltraggi del male di vivere, un sostegno decisivo viene dal prodigioso scatto dell'ironia che vince la disperazione, come si vede nelle novelle L'angelo (1912), Le due famiglie e La veglia, sulle quali mi piace soffermarmi con un po' più di agio. Nell'esilarante pezzo che s'intitola L'angelo, l'irrisione investe le pratiche religiose, specie per iniziativa di due figure femminili che preludono al campionario spassosissimo delle Stampe dell'800. La vecchia zitella americana, miss Globe, dai singhiozzini gutturali, e Drusilla, dal grugno porcino, la serva del canuto e povero curato don Pasquale, formano un duetto, icastico e puntuto, di femmine fuori dell'ordinario. Insieme le due donne riescono nel loro intento, sullo sfondo d'un'umile e derelitta parrocchia di campagna, dove il prete, la perpetua e molti parrocchiani muoiono di fame. L'obiettivo è questo: far sì che l'onesto don Pasquale celebri in chiesa il funerale, con tutti i canonici onori religiosi, del cane che appartiene alla ricchissima zitella americana, disposta, pur di raggiungere lo scopo, a pagare cifre esorbitanti. Va a finire che non solo la defunta bestiola è benedetta e sepolta nel camposanto del paese, ma la sua sepoltura è ornata, nel primo anniversario della dipartita, da uno splendido monumento di marmo e bronzo, opera di illustre scultore fiorentino. La straordinaria messinscena del «sacrilegio» salva dalla fame un intero villaggio e il non più povero don Pasquale si mette in pace la coscienza al pensiero che il barboncino abbia trovato asilo nella guardiola di San Pietro. E il Santo ha bisogno d'un cane da guardia.

Le due famiglie presenta un'altra memoranda figura femminile, parente (in anticipo di molti anni) delle formidabili «sore» che popolano le Stampe dell'800. La vedova del colonnello, detta la Colonnella, fiorentina di residenza, una matrona romagnola di stazza mastodontica, esuberante e gagliarda, scandalosamente vitale e dalla risata favolosa, ancora piacente nonostante la cinquantina, è madre di cinque giovani figliole, belle, morbide, rigogliose, cinque puledre scalpitanti, che scoppiano di salute e dalla voglia di maritarsi. Via via sistema tutte e cinque le sue «piscione», due al Nord (Torino e Belluno), due al Sud (Napoli e Palermo) e una a Parigi (inqualificabile, a suo dire, «città di donne sudice»), talché ha nipotini «bruni come zulù, o biondi, dalle carni di oliva e dalle carni di rosa, di tutti i colori!». Però lei è rimasta sola. L'impianto narrativo si basa sullo scilinguagnolo della Colonnella, sulle sue tirate senza freno, precipitose e disinibite: «Rimango sola come una bestia! Queste rinnegate, una volta via, non scrivono più, non sanno pensare che ai loro despoti. Io vi ripudio tutte! andate all'inferno, ch'io non vi veda mai più, ch'io non senta mai più parlare di voi, assassini che non siete altro!». Invece è affezionatissima alle figlie, ai generi, agli innumerevoli nipotini di ogni colore e per Natale e per Pasqua, quando l'intera tribù si raduna a Firenze, la casa sembra l'arca di Noè. Però lei è rimasta sola. E allora un giorno esce borbottando, con la faccia congestionata, e ritorna con una bella cagnolina in braccio («Ecco la mia creatura!»). Si chiama Burrasca e pare abbia il mercurio nelle vene. Alla buona Colonnella sembra giusto che anche la cagnetta abbia un cencio di marito. Ecco allora che è introdotto in casa Libeccio e la Burraschina di lì a due mesi partorisce due graziose creaturine, Grandine e Bufera. E pian pianino la famiglia canina si allarga e giunge al numero di ventiquattro componenti (ognuno con il suo nome). Quando le due famiglie sono riunite, è il finimondo! Le figlie, i generi, i nipoti, i cani saltano da ogni parte, e sulle onde di quell'oceano in burrasca risuona di tanto in tanto una delle clamorose risate della Colonnella, sane e felici.

Fuori dai parametri finora considerati, la novella La veglia ripropone l'improvviso ribaltamento dissacrante che regge la struttura del romanzo d'esordio :riflessi (1908). La signora Costanza, vedova morigeratissima, figlia d'un giudice e già consorte di un importante funzionario governativo, si trova in ristrettezze economiche. D'intesa con la candida e affezionatissima Rosina, giovane governante della montagna pistoiese, decide di ospitare dozzinanti nel suo bell'appartamento nel centro di Firenze. Le camere sono affittate a clienti scelti e selezionati: impiegati, professionisti, studenti referenziatissimi. La signora Costanza è ammirata e stimata da tutti per avere fatto fronte ai problemi della vita con alta dignità. Le sue camere sono da trent'anni ricercatissime. Ora avviene che muore l'amica del cuore, Amalia, anche lei affittacamere di rispettoso lignaggio. Muore assistita dalla signora Costanza e da Rosina, le uniche persone care. E si rende necessaria la veglia funebre nella casa della povera defunta. Le due donne, pietose e devote, decidono di farsi reciproca compagnia e coraggio durante la nottata della veglia. E lasciano, per la prima volta in trent'anni, incustodita la loro casa. Ma sono tranquille, perché i quattro attuali dozzinanti sono di specchiata virtù: un maggiore a riposo, un medico, uno studente di recitazione, romagnolo, e un poeta, poco più che ventenne, bruno, esile, elegante. Durante l'interminabile veglia funebre, la signora Costanza, infreddolita e assonnata, alla cinque della mattina decide di tornare a casa, per dormire qualche ora e poi dare il cambio a Rosina. Affacciatasi alla soglia della propria abitazione, resta allibita: la porta della camera del poeta spalancata, sedie rovesciate, bottiglie e indumenti per terra, donnine nude di corsa, come ombre volanti, per il corridoio. La vecchia cade di schianto nel mezzo della stanza, fulminata. L'indomani il più pettegolo dei giornali cittadini riporta un bel pezzo di cronaca, dove si parla di una casa di appuntamenti e del vicinato raccapricciato contro la defunta signora Costanza «che si era fatta abilmente ritenere da tutti come una donna delle più scrupolose e costumate». Il finale colpo di scena, ironicamente amaro, dissolve, con la cronaca della gazzetta e le malignità della gente vociferante, l'onestà e i sacrifici di un'intera esistenza. Va notato che i due giovani dozzinanti assassini sono Aldo e l'amico Marino Moretti, entrambi allievi della Reale Scuola di Recitazione di Luigi Rasi, in via Laura, dal 1902 al 1906.

Ecco Aldo che come personaggio si rende responsabile dell'aspro oltraggio verso la vecchia signora, dell'eversiva dissacrazione che colpisce l'etica del sacrificio, insieme al quieto e moralistico perbenismo del rispetto sociale.

Questi sono gli essenziali tratti distintivi di un Palazzeschi sconosciuto al grande pubblico.

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