Politica

Lo scrittore? Lavora come sguattero

Scrivere stanca. Lo sapeva bene Maxim Gorkij, che pure aveva cominciato a lavorare a soli undici anni. Era appena morta la madre, di tubercolosi, si era appena reso uccel di bosco il patrigno, al funerale c’erano solo il piccolo Maxim e suo nonno. Tornando verso casa, il vecchio strattonò per strada il ragazzo e gli urlò: «Non sei una medaglia... Non puoi starmi per sempre appeso al collo. Vai a guadagnarti il pane!». Scaricatore, sguattero, pescatore, fuochista, non gli venne risparmiato niente, non si risparmiò niente, nemmeno il colpo di pistola con cui cercò di ammazzarsi. Il giorno infine che decise di raccontare la sua vita, fu l’inizio della sua fortuna come romanziere e della sua dannazione come essere umano. Scrivere lo sfiancava, confessò, era «un lavoro da galera, superiore alle sue forze».
Di cosa vivono gli scrittori quando non vivono di scrittura? Jack London andò a cercare l’oro nel Klondike, Dashiell Hammett andava in cerca di delinquenti, su e giù per Baltimora, per conto dell’agenzia investigativa Pinkerton, T.S. Eliot lavorava in una banca e per ufficio aveva uno scantinato, Céline faceva il medico dei poveri e per studio aveva due stanzette in periferia. Tutti, chi più chi meno, vivevano il momento in cui si ritrovavano con la penna in mano con una gioia fatta di terrore: era una vera e propria schiavitù, peggio, molto peggio del posto fisso o del lavoro duro, un’ossessione e una dannazione, l’incubo del foglio bianco, l’ansia da prestazione, la paranoia del fallimento... Charles Bukowski se ne stette buono alle poste per quattordici anni, poi il successo lo fulminò: più scriveva e più beveva, le sue letture pubbliche terminavano con il lancio di bottiglie fra l’autore e i partecipanti, era un massacro. «È più facile lavorare in fabbrica» disse a un amico: «Lì non c’è pressione».
Mestieri di scrittori (Sellerio, pagg. 215, euro 12) è un libretto delizioso di Daria Galateria, ventiquattro ritratti che raccontano il meglio del Novecento, da Kafka a Svevo passando per Saint-Exupéry e George Orwell, visti sotto l’angolatura disincantata, divertita e partecipe dell’altro, del «doppio», del bisogno di ancorare a qualcosa di stabile e di certo la più instabile e incerta delle professioni, ovvero di moltiplicare all’infinito i mestieri più improbabili per fuggire il momento in cui la scrittura ti inchioderà e non potrai più scappare.
Prendiamo Colette. Negli anni Trenta, quando lei ne ha già sessanta ed è ormai famosa, l’autrice di Claudine e di Chéri, decide di reinventarsi vendendo prodotti di bellezza che portano il suo nome. Il mondo intellettuale è perplesso e fioccano i giudizi malevoli. È in corsa per essere eletta all’Accademia belga degli scrittori, creata sul modello dell’Académie Française, ed è in lizza con Paul Claudel, che come altro mestiere fa il diplomatico di carriera. «Stai a vedere che dovremo scegliere fra un ambasciatore e una profumiera» è il commento. Ma lei non demorde, apre il suo salone a Parigi, una filiale a Saint-Tropez, un’altra a Nantes: «Usate il khol anche di notte» è il consiglio che dà alle donne, vecchie e giovani, che affollano i suoi istituti. È un tour de force eroico e patetico, Colette è anziana, è grassa, è ipertruccata, gira come una trottola e non si ferma mai. «Il mio non è un lavoro molto riposante» scrive all’amica poetessa Hélène Picard: «Ma è infinitamente meglio che stare seduta davanti a un foglio di carta, fosse pure color turchese». È questa paura la molla di quella frenesia e Colette lo sa bene: in passato ha fatto la ballerina, l’acrobata, il mimo e ha recitato, tutto per poter tenere la scrittura a debita distanza, perché fosse un piacere e non un dovere, un passatempo e non un’ossessione. Reinventandosi come estetista esorcizza lo stato d’ansia che ha trasformato la sua arte di narrare in una coazione a scrivere. Mentre spalma creme e partecipa a pranzi offerti in suo onore da parrucchieri di provincia, le torna l’estro svagato di mettere nero su bianco un’altra storia, così, tanto per vedere se funziona ancora. Tra un flacone di unguenti e uno di lozioni scrive La gatta, un capolavoro.
Prendiamo Blaise Cendrars. Era svizzero, si chiamava Frédéric Sauser, i suoi genitori lo volevano nel mondo del commercio, lo avevano persino iscritto a un istituto professionale. Fra fughe da casa e fughe da scuola, riescono a mandarlo a servizio da un gioielliere di loro conoscenza che ha aperto un lussuoso negozio a San Pietroburgo. È la Russia del primo Novecento, tutta conati rivoluzionari e giri di vite zaristi. Freddy impara il mestiere, ma si mischia un po’ troppo ai «decabristi». Delicatamente, il padrone lo mette alla porta. Tornato in Svizzera, ci sarebbe un posto all’Agenzia dei telegrafi, ma il ragazzo freme, ha assaggiato i grandi spazi e le grandi idee, si è mischiato con la vita, di telegrammi non gli importa nulla. Prova a fare l’attore, prova a fare il giocoliere, prova a fare l’arabo: vende dolci e tappeti... Ha 24 anni, l’Europa non lo capisce, pensa, proviamo con l’America. A New York si deprime, poi risorge, cambia nome, rinasce dalle ceneri, Cendrars, appunto, e Blaise, come il filosofo Pascal: «Mi sono fatto un nome nuovo/ visibile come un insegna blu». Poi, di nuovo il Vecchio continente, scoppia la Prima guerra mondiale, si arruola Freddy-Blaise, 3° reggimento della Legione straniera, si sente francese e poeta. Dopo tre mesi, una raffica gli porta via il braccio destro durante un attacco. Uscito dall’ospedale è uno scheletro monco che cammina, il regista Abel Gance lo trova perfetto come comparsa, per fare la parte dei «morti che ritornano», ma Cendrars diviene di fatto il suo assistente, si appassiona al mestiere... Finisce anche questa esperienza, ritornano i viaggi, si dà all’import-export, scrive, racconta di sé, della sua mano perduta, della sua vita perduta. Ormai è uno scrittore, ma finge sempre di essere altrove, di essere un altro.
Di ciascuno dei suoi eroi, Daria Galateria isola un particolare, coglie lo snodo che li inchioda alla scrittura proprio quando tutto sembra doverli allontanare. «Il segreto della mia esistenza», dirà Paul Claudel, «è in una donna incontrata su una nave». Accadde sui mari della Cina, lui era giovane, era vergine, era cattolicissimo, andava a fare il console. Lei era sposata, era polacca, era disinibita, ma conosceva la Bibbia... Dalla relazione nacque una figlia adultera e un dramma, Partage du midi: ci metterà sessant’anni prima di pubblicarlo.
Italo Svevo è di buona famiglia, è figlio di commercianti del vetro, ma sa che specchi e bicchieri non sono per lui. Il padre fallisce e fino ai quarant’anni Italo fa l’impiegato di giorno e lo scrittore di sera. Ogni romanzo è un fallimento e un bel giorno dice basta: ha sposato una ricca cugina, è ora che abbandoni i suoi sogni di gloria. Per i successivi venti, «la ridicola e dannosa cosa» che è la letteratura viene da lui negata e per non ricadere nel vizio si dà allo studio del violino, si dà allo studio delle lingue. È così che incontra James Joyce, uno che è allora un illustre sconosciuto convinto però di essere un genio. Joyce svela a Svevo lo Svevo che si nasconde e si mortifica: è un grande scrittore, perché non riconoscerlo, perché arrendersi, perché disperarsi?
Saint-Exupéry pensava che il suo vero mestiere fosse pilotare aerei, Boris Vian si considerava un musicista jazz, Bruce Chatwin sognava un’esistenza da archeologo... Jean Giono fa l’impiegato di banca per diciott’anni: c’è entrato da fattorino che ne aveva sedici, per mantenere il padre ciabattino che si è ammalato e non può più lavorare. Terrorizzato dai superiori, ha sempre paura di perdere il posto: la domenica fa lunghe passeggiate, ma mai così lunghe da non poter vedere, da lontano, il palazzo della banca. Teme che possa scomparire... «È la paura dunque che mi ha tolto il gusto del viaggio». Scrive, Giono, perché è l’unico modo che ha per evadere e sognare. Alla fine degli anni Venti André Gide, che è allora il nume tutelare della letteratura francese, legge un suo romanzo pubblicato a puntate su una rivista. Lo giudica un capolavoro, vuole conoscere assolutamente l’autore. Si reca a Manosque, dove Giono abita e da dove non si sposterà mai: la vecchia madre va in banca ad avvertirlo della visita, e il figliuolo fa sapere che, finito l’orario d’ufficio, sarà subito a sua disposizione... Nell’attesa Gide guarda la modesta libreria di Giono, ci sono solo classici economici, non c’è un solo romanzo moderno, e naturalmente non c’è nemmeno un suo libro. «Sono troppo cari» gli dice il giovane quando finalmente si fa vivo e l’altro capisce che non lo sta prendendo in giro, che dice tranquillamente la verità. Gide ha sessant’anni e per lui la letteratura è la vita, non passa giorno senza che nel registrare la prima annulli, realizzandosi, la seconda. È una religione, anche, e lui ne è il gran sacerdote. E per Giono, cos’è lo scrivere per Giono? È un po’ come quei cantastorie arabi, è la risposta, che se ne stanno accovacciati per terra a raccontare. Se la storia è interessante, la gente si ferma e fa un’offerta. Ecco, la letteratura è questa cosa qui. «Se fosse così, io morirei di fame» risponde Gide.
Il capolavoro di Giono avrà come titolo L’ussaro sul tetto e sarà un romanzo d’amore, di cappa e di spada, un «romanzo parlato» pieno di intrighi e di avventure scritto dal più sedentario e dal più pacifista degli autori. Scrivere è anche un mestiere che non sopporta la routine.

Da questo punto di vista anche Daria Galateria ha le carte in regola.

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