Cultura e Spettacoli

Gli scrittori affogati in un drink

Da Poe a Chandler, da Fitzgerald a Faulkner, un viaggio negli anni in cui gli autori «maledetti» incendiavano le pagine col sacro fuoco di un bicchiere

Ramoscelli di menta, lime, rum bianco, ghiaccio tritato e zucchero di canna: tra tutti, ed erano innumerevoli, Hemingway preferiva il mojito, si sa. Basta fare un giretto nei suoi luoghi d’elezione, all’Avana, per averne la conferma. Al Floridita, il bar-trappola per turisti dal daiquiri più caro del mondo, che espone una statua di Papa a grandezza naturale alla fine del bancone. O alla Bodeguita del Medio, quel caffè giustamente rozzo indicato come la casa del mojito, dove non soltanto si abbeverava Hemingway, ma Brigitte Bardot, Nat King Cole, Jimmy Durante, Errol Flynn.
Sin dagli esordi: quel che caratterizzò William Faulkner è che, a differenza di molti scrittori, bevve parecchio sin dall’inizio, mentre scriveva. Si giustificava dicendo che siccome scriveva soprattutto di notte, era inevitabile tenersi un whisky accanto. «Non esiste niente che un buon whisky non possa curare». E diceva sul serio. Così a Hollywood arrivò a una riunione di sceneggiatura per Le vie della gloria di Howard Hawks (1936) in compagnia di un inconfondibile sacchetto di carta marrone. Nell’aprire la bottiglia si tagliò profondamente un dito. Ma nemmeno questo lo fermò: si corazzò con tutta la carta che trovò nel cestino e continuò a bere, tamponando il sangue. Il suo cocktail preferito? Mint julep: menta, zucchero di canna e bourbon, ad alcuni piace anche con l’aggiunta di soda. E che le foglie di menta fossero considerate «una specie di medicina» ai primi dell'Ottocento, non tragga in inganno: non tutto quel che cura Faulkner può curare noi.
«Sto bevendo tè caldo e non combino un accidente»: certo le scrittrici ci vanno più leggere con le dichiarazioni pro-cocktail, ma alla fine sanno bene come lasciarsi andare. Carson McCullers ad esempio amava il tè, certo, ma un tè particolare: il Long Island Iced Tea. Gin, vodka, tequila, rum, cointreau, succo di limone e cola per dare il giusto colorito inoffensivo ne fanno un cocktail potentissimo, ma dall'aspetto totalmente innocuo, del tutto simile a quello di un tè analcolico. Adatto per bevitori discreti, insomma, perfetto per i lunghi pomeriggi che la Mc Cullers trascorreva alla macchina da scrivere nella famosa colonia per scittori di Yaddo, ma innervato di gradazione perfida, in grado di stendere un principiante al secondo sorso.
Per quanto riguarda Raymond Chandler, con il Gimlet si va a colpo sicuro: due parti di gin e una di succo di lime, serviti in un bicchiere ghiacciato è il cocktail che Philip Marlowe introdusse, con Il lungo addio, in tutti i bar d’America: «il primo lento drink della sera in un bar tranquillo: meraviglioso». Anche per Chandler gli aneddoti sull’alcool si sprecano, ma forse il più stupefacente, un «sacrificio» che a Hollywood è divenuto leggenda, è quello legato alla sceneggiatura di La dalia azzurra (1946), che venne messo in produzione dalla Paramount prima ancora che Chandler avesse scritto una sola battuta. Dopo due settimane di riprese, il creatore del detective Marlowe non aveva ancora trovato un finale, in preda a un attacco del cosiddetto «blocco dello scrittore». Disse al suo produttore che anche se era un ex alcolista e ricominciare lo avrebbe ucciso, l’unico modo per fargli ritrovare la creatività era un relax totale. E quel relax poteva venire solo dal bicchiere. Ebbe a disposizione sei segretarie, un medico pronto con una riserva di vitamine - quando beveva non mangiava mai - e limousine fuori della porta di casa, per portare sul set le pagine appena prodotte.
«Prima ti fai un drink, poi quel drink si fa un altro drink e alla fine sono i drink a farsi te». Se te lo dicono tuo padre, tua moglie o l’amica preoccupata, sai che noia, ma se ritrovi la frase tra le massime di Francis Scott Fitzgerald, che le notti sapeva come intenerirle un sorso dopo l’altro, il gioco si fa duro e ti vien voglia di capire se tra scrittura e tasso alcolico possa esserci un nesso, o esserci stato. Magari negli Stati Uniti, magari negli anni tra i Venti e i Quaranta del Novecento, l’età dell’oro per i drink. Esserci stato, ché di quegli scrittori maledetti che incendiavano le pagine col sacro fuoco del bicchiere pare finito il tempo. Al massimo un cocktail, o due. Al massimo, ai party.
Come quello di presentazione del volume che ha sbancato le librerie americane sotto Natale, tutto esaurito a New York, Chicago e Los Angeles, il primo nella classifica dei dieci Cocktail Book del 2006, il preferito dai bartenders e dalle riviste di house&cooking, il segnalato dagli Urbanite e Observer vari delle metropoli Usa: Hemingway & Bailey's Bartending Guide to Great American Writers (Algonquin Books, pagg. 100, $ 15,95). Un party allo Chateau Marmont, il celebre hotel losangelino del Sunset Boulevard, tutto lusso, celebrità ed «eternally chic», dove se i letti potessero parlare racconterebbero la storia di Hollywood, da Clark Gable che seduce Jean Harlow a John Belushi che muore per overdose passando per Howard Hughes che vi si esercitava da voyeur. Il luogo ideale per sedersi al bar e sfogliare il libro, che raccoglie 43 celebrità della letteratura americana tra scrittori e poeti e, in rigoroso ordine alfabetico, ne elenca aneddoti e brani legati ai drink - e spesso ai set hollywoodiani, come abbiamo visto - e ricetta certificata del cocktail preferito.
I due autori sono quasi illustri: Edward Hemingway, nipote di Papa, illustratore per il New York Times e GQ, e lo sceneggiatore Mark Bailey, che sul Sunset Strip è di casa. Insieme hanno scritto l’introduzione alcoolically correct, che ammonisce «Un paio di cocktail non ti rendono un ubriacone. E nessuna quantità di liquore potrà mai renderti uno scrittore». Poi si sono divisi i compiti: il nipote di Hemingway ha eseguito i ficcanti ritratti, tra gli altri, di John Berryman, John Cheever, William Faulkner, Jack Kerouac, Edgar Allan Poe, Thomas Wolfe, Raymond Carver, Tennessee Williams, Carson McCullers, Raymond Chandler, naturalmente Fitzgerald e ancor più naturalmente Hemingway. Ritratti che accompagnano le ricerche biobibliografiche, e gossippare, di Bailey, che narrano di un periodo in cui «si beveva seriamente in tre luoghi al mondo: New York, Los Angeles e Parigi. Il novanta per cento delle storie in cui si andava giù pesante con l'alcool accadevano là. E là potevi trovare i veri bevitori». Oggi, secondo Bailey, le cose sono cambiate soprattutto a Los Angeles, dove, dice «la gente passa la maggior parte del tempo in auto. E così non si beve più come una volta».
Alla ricerca di un legame tra ispirazione e numero di drink, non ci è rimasto altro da fare che raggiungere Edward Hemingway e chiedergli una battuta «purosangue»: «Un nesso in sé non esiste. Alcuni scrittori bevono mentre scrivono, altri no, compreso mio nonno. Tuttavia molti degli scrittori del libro bevevano insieme, nei loro angolini o bar favoriti, come il “Club 21”. Scrivere è una professione solitaria e una bella bevuta di gruppo può rivelarsi un antidoto efficace. Write hard, then drink hard».

Ovvero: prima lavora duramente, poi, casomai, prendi in mano il bicchiere.

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