A scuola, fiction e arte per conoscere la Bibbia

«Non ho mai pensato a mio padre come a un eroe: lui stesso non si è mai sentito tale, né avrebbe voluto esserlo. È paradossale che in Italia si diventi eroi solo per aver fatto il proprio dovere. Mio padre ha fatto il suo dovere, senza ambizioni diverse, ma solo credendo nella giustizia di ciò che faceva”. Umberto Ambrosoli è il terzo figlio di Giorgio, l’avvocato liquidatore della Banca Privata Italiana, ucciso a Milano sotto casa, in via Morozzo della Rocca, nella notte tra l’11 e il 12 luglio del 1979 da un killer mandato dalla mafia e pagato da Michele Sindona. Dopo la morte, nella sua borsa fu trovata una lettera, una sorta di testamento spirituale, scritto alla moglie quattro anni prima: «Anna carissima, è il 25.2.1975 e sono pronto per il deposito dello stato passivo della B.P.I., atto che ovviamente non soddisferà molti (...). È indubbio che pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di far qualcosa per il Paese (...). Qualunque cosa succeda, comunque, tu sai che cosa devi fare e sono certo saprai fare benissimo. Dovrai tu allevare i ragazzi e crescerli nel rispetto di quei valori nei quali noi abbiamo creduto». Il giorno della scomparsa i figli avevano undici, dieci e otto anni. Il più piccolo, Umberto, oggi ne ha 38, ha tre figli, è avvocato come il padre, e a 30 anni dalla sua morte ha pubblicato un libro: «Qualunque cosa succeda» (Sironi, pagg. 317, euro 18; da domani in libreria). Non un atto d’accusa, né la rivelazione di chissà quali verità nascoste. Piuttosto una storia che, da figlio, ha voluto scrivere come atto d’amore verso il padre, e da padre, ha voluto narrare ai figli per spiegare chi era davvero il nonno. «Un uomo libero. Capace di assumersi le responsabilità, di rimanere coerente con i propri valori: l’onestà, il senso dello Stato, la giustizia – racconta l’autore al “Giornale” -. E un padre affettuoso, presente. Ricordo che mi accompagnava a scuola, lui con la borsa di cuoio, io a imitarne il gesto con la cartella, e che giocavamo a nascondino in casa, dietro e dentro gli armadi. Al mio settimo compleanno nascose il mio regalo sotto l’auto: lo cercai per tutto il giardino e, una volta trovato, mi infilai sotto la macchina per recuperarlo. Ricordo con quanta eccitazione e fatica mi sono guadagnato la mia nuova cartella per la scuola». Inflessibile e rigoroso sul lavoro, nel privato era ironico, spiritoso, capace di scherzi micidiali, «come quando mise dei sassolini nei copricerchioni dell’auto: durante la marcia ne usciva un rumore tanto sinistro che fece in fretta a convincere la mamma che la vecchia A112 era da cambiare». Certo, era anche un ottimo avvocato: laurea in legge alla Statale, uno studio in corso Magenta, Ambrosoli negli anni ’70 si distinse come il più giovane di una équipe di supporto ai liquidatori della Società Finanziaria Italiana. È per questo, forse, che l’allora governatore Guido Carli nel 1974 scelse lui come commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, capofila dell’impero finanziario di Sindona. Ambrosoli iniziò a studiare il meccanismo congeniato dal grande finanziere: ne smascherò i contorti ingranaggi, i giri sporchi di denaro, le società fasulle, mise a nudo una gigantesca truffa a danno dei risparmiatori. «Ha fatto quello che riteneva giusto: evitare che lo Stato, con i soldi dei contribuenti, pagasse per l’enorme buco causato da un singolo». Sindona iniziò a preoccuparsi e i suoi compari a muoversi: prima i tentativi di corruzione, poi le pressioni dai partiti, infine le minacce di morte. Ma Ambrosoli continuò per la sua strada: «Sarebbe bastato poco per salvarsi. Avrebbe potuto tener aperta la liquidazione all’infinito o limitarsi a una procedura contabile, non investigativa. Avrebbe potuto dimettersi o delegare le scelte ad altri. Ma lo avrebbe fatto andando contro i suoi principi». Sarebbe bastato poco anche per salvarlo. Il 14 luglio 1979, ai suoi funerali, non presenziò alcuna autorità di governo. «Mezza Dc aveva contatti con Sindona. Il suo “piano” aveva l’appoggio, o almeno l’interessamento, di Evangelisti, De Carolis, Fanfani, lo stesso Andreotti. Non è un caso se Sindona donò al governo due miliardi per finanziare il referendum sul divorzio. Papà non ha mai avuto la solidarietà del governo, né della collettività. E non credo – aggiunge – che l’avrebbe nemmeno oggi. Di Sindona in giro ce ne sono tanti. Così come ci sono gli interessi particolari, le deformazioni del rapporto tra finanza, impresa, mondo politico, basti pensare al caso Alitalia. Per questo la storia di papà è ancora attuale. Si scontrerebbe con gli stessi ostacoli, pressioni, l’indifferenza della società, che dopo trent’anni non ha ancora acquisito il valore della legalità.

Ma oggi come allora – continua - papà sarebbe andato avanti. Spesso si crede che se l’illegalità cresce fino a diventare “sistema”, il cittadino non può far altro che adeguarsi: mio padre ha dimostrato che una scelta esiste sempre».

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