Cultura e Spettacoli

Se anche i socialisti si dicono liberali

Il termine «liberal» non ha lo stesso significato in America e in Europa. E soprattutto in Francia, la «gauche» lo usa impropriamente...

Qualche tempo fa, Giovanni Sartori ha definito i liberals americani i socialisti di un Paese senza socialismo. L’arguzia del politologo voleva enfatizzare quanto sia grande la distanza tra chi è liberale in Europa e chi dice di esserlo negli Usa. La conseguenza è che quando si parla di liberalismo si è sempre costretti ad aggiungere qualche specificazione, tanto che intorno a questo concetto fioriscono continuamente controversie e polemiche. D’altra parte, all’indomani del crollo del Muro di Berlino è parso chiaro come studiosi e politici di area progressista abbiano trovato utile iscriversi alla famiglia liberale, anche forti del fatto che sono ormai decenni che nelle traduzioni dei maggiori autori della sinistra d’oltre Oceano - John Rawls, in primo luogo - il termine liberal viene reso in italiano con «liberale».
Il volume Le libéralisme american. Histoire d’un détournement di Alain Laurent (Les Belles Lettres) si propone di fare luce su tali controversie, i cui primi passi si ebbero in Inghilterra e andarono ben oltre i confini di una disputa lessicale. Con John Stuart Mill, in effetti, una teoria politica classicamente liberale si orienta ad accogliere sempre più le proposte del socialismo moderato. Ma il pieno trionfo nel mondo anglosassone del new liberalism ha luogo grazie al filosofo americano John Dewey e - ancor più - all’imporsi della cultura progressista all’epoca di Franklyn Delano Roosevelt. Con il New Deal, insomma, la prospettiva determinata ad ampliare la spesa pubblica e a sposare una politica estera sempre più attiva riesce a definirsi liberal e a sottrarre tale bandiera a quanti - da lì in poi - decideranno di dirsi liberali classici, conservatori o libertari. Il libro di Alain Laurent analizza in larga misura la vicenda americana, ma si indirizza soprattutto ai lettori francesi. Nel mondo intellettuale transalpino, in effetti, la gauche è assai attiva nel tentativo di appropriarsi della tradizione liberale, al fine di farne una versione solo un po’ attenuata del socialismo. Il volume di Monique Canto-Sperber (Le Socialisme libéral) e la stessa riproposizione di Carlo Rosselli s’inquadrano entro tale progetto di cui Laurent evidenzia la totale inconsistenza.
È possibile che anche in Francia, come ormai da tempo negli Usa, si possano dire liberali quanti difendono non già il mercato ma la tassazione, non i diritti di proprietà ma i diritti detti «sociali»? È possibile. Tanto più che la geografia politica dell’Esagono, tracciata da una sinistra ampiamente egemone, ha già cancellato dalla scena i veri liberali: i Pascal Salin e i Bertrand Lemennicier. Sulla stampa, d’altra parte, essi sono detti ultra-libéraux, in quanto portatori di tesi considerate esageratamente liberali per essere davvero tali. La casella liberale, allora, è fin da ora in un certo senso vuota.

Ed è in larga misura per impedire che essa venga colonizzata da socialisti sotto mentite spoglie che Laurent ha scritto questo libro.

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