Marcello DOrta
La mia barba è sempre stata poca cosa (perché non ho mai prodotto nulla di grande. Ma lasciate che riscriva Guerra e pace, e vedrete come lallungherò) e tuttavia, alcuni anni or sono, ho rischiato desser chiamato (anzi di diventare) barbone a causa di un aggettivo napoletano.
Questi i fatti. Una dietologa partenopea, risentita per la parola scurnacchiàta (scornata) rivoltale da un mio alunno in un tema, mi aveva chiamato in giudizio chiedendo come risarcimento danni (morali) la bella cifra di un miliardo di lire, che io avrei potuto racimolare solo se avessi venduto (oltre la casa), me stesso, mia moglie e mio figlio. Il processo durò anni, infine la Cassazione stabilì che lepiteto, era «rappresentativo di una particolare realtà sociale» (la periferia degradata dove avevo insegnato e raccolto il componimento), e perciò «lecito e privo di carattere offensivo».
Da allora ho in grande stima i giudici, anche se devo ammettere che in materia di parolacce, hanno le idee un po confuse, e forse dovrebbero chiedere lumi a linguisti, psicologi, grammatici e fisiognomi (gli insulti possono essere anche espressi con movenze facciali). Sempre più, infatti, si emanano sentenze che smentiscono in modo anche clamoroso altri provvedimenti giurisdizionali, e così il semplice cittadino non sa più se chiamando (ad esempio) «terrone» un meridionale, sarà avviato alla Caienna o lasciato andare alle Seychelles.
Mi riferisco alla sentenza numero 4036/06 della Cassazione, che un paio di giorni fa ha condannato il signor Gianfranco P., di Monza, per aver dato del «pirla» a tale Giuseppe S. Gli avvocati del convenuto (così è detto colui che è citato in giudizio) hanno inutilmente fatto rilevare che laggettivo «pirla» è un arcaico lemma milanese del Medioevo, molto usato anche in letteratura (Gadda, Montale), per lo più in senso ironico, e privo di una vera malizia.
Però, nel 1996, il Tribunale dei minori di Milano, aveva dichiarato che apostrofare qualcuno con il termine «pirla» non è da considerarsi reato; così come non lo è dargli del «porcellone» (1998, VI sez. penale del Tribunale di Roma), augurargli un incontro ravvicinato con un sodomita («vaffanculo!») (1995, Procura di Biella), paragonarlo ad un «pezzo di merda», minacciarlo di «rompergli il culo», dargli del «buffone», dello «scansafatiche», del «ciuco», e (sentite questa) dello «sporco negro!» se il colore della pelle è scuro (Suprema Corte di Cassazione, dicembre 2005). Per i giudici (e a secondo i casi) queste contumelie rientrano «nellinsindacabile diritto di critica e denuncia», oppure, benché «volgari, sono intese solo in senso figurato», o sono «soltanto ingiuriose» ma non razziste, o «seppure rozze e volgari non possono essere considerate come ingiuriose, in quanto di uso comune nel linguaggio dei giorni nostri».
Forti di queste sentenze, pensate che a inveire contro un presuntuoso sbattendogli sul muso un «Tu non sei nessuno!» non vi capiti niente? Sbagliate, perché lesclamativo vi costerà trecento euro di multa (Cassazione, settembre 2004) e getterà unombra sulla vostra fedina penale; quel pronome, infatti, è ritenuto «lesivo del decoro di un individuo, ovvero della dignità fisica, sociale e intellettuale». Dire a una donna (fosse anche del tipo Tina Pica) «Sei brutta» è considerato reato, perché «le ingiurie incidono sullaspetto psicologico di chi le riceve», e uno potrebbe anche cadere in depressione (o buttarsi da una finestra). Anche dare del «leghista» (a chi non appartenga, evidentemente, al Carroccio) è ritenuto unoffesa, perché equivale a dire «fascista» o «individuo rozzo». Sullapostrofare «terrone», invece, i magistrati sono divisi. Cè chi ritiene la parola «dotata di forte connotazione dispregiativa», e chi invece la reputa solo un modo colorito per dire meridionale (io però gradirei non essere tinteggiato).
Come regolarsi, allora, se uno proprio non può fare a meno di offendere il prossimo cristiano? Secondo Umberto Eco, per evitare tribunali e carte bollate, la miglior cosa è esercitare larte della perifrasi, giro di parole che si adopera per esprimere unidea senza usare il nome che ad essa si riferisce.
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