Lentrata in vigore a Capodanno della norma che introduce anche in Italia la «class action» sta già creando un ingorgo di denunce: finora se nè avuta una al giorno, per iniziativa delle associazioni dei consumatori, e se le cose dovessero procedere a questo ritmo ci sarebbe davvero di che preoccuparsi. I guai non vengono primariamente dalla legge, in sé migliorativa rispetto al progetto del 2007. Oltre ad avere superato una serie di difficoltà «tecniche» (il primo schema si esponeva pure a gravi rischi di incostituzionalità), la norma in vigore rigetta lidea di riconoscere alle sole associazioni di categoria la facoltà di avviare la procedura. Oggi chiunque può farlo ed è bene che sia così, dato che nulla cè di peggio che incrementare il potere di organizzazioni dominate da ogni sorta di furore demagogico.
Se ora la legge permette a ogni consumatore e utente di avviare una procedura «di classe» nei riguardi di unazienda, ovviamente non ha tolto questa facoltà alle associazioni: né poteva farlo. Ma adesso ci troviamo a fare i conti con seri problemi che sono strettamente legati alle caratteristiche di queste medesime organizzazioni.
In primo luogo, i campioni del consumerismo vedono nella «class action» una clava con cui colpire liniziativa privata. Questo istituto giuridico è inteso, insomma, come uno strumento nella lotta dei poveri contro i ricchi, dei buoni contro i cattivi, della collettività contro le imprese. Cè spesso uno spirito ottusamente anti-capitalistico nella retorica di tali realtà associative, che sposano in maniera acritica la rappresentazione manichea del mondo che usciva dal film «Erin Brokovich», interpretato da una grintosissima Julia Roberts.
Ma non si tratta solo di ideologia. La pregiudiziale illiberale di tante organizzazioni dei consumatori rischia di incontrarsi con la tentazione di aggiungere la «class action» allarmamentario con cui, nei contesti più diversi, lazione legale a difesa di vasti gruppi di cittadini può essere usata come arma di ricatto ai danni delle aziende. Tanto più che tali associazioni da tempo sono realtà sindacali, le quali conoscono i medesimi rischi di politicizzazione, collateralismo e opportunismo che hanno segnato la storia del sindacalismo tradizionale. Il fatto che Elio Lannutti sia oggi un parlamentare è la riprova che ormai queste strutture sono un trampolino di lancio per la politica: esattamente come le organizzazioni dei lavoratori. Dopo limbarcata dei Bertinotti, delle Polverini e dei Marini, ora aspettiamoci quella dei sindacalisti dei consumatori.
Lo stesso Lannutti, che solo poche settimane fa ha ricevuto una multa di 100mila euro da parte della Consob per aver diffuso notizie manipolatorie del mercato, è più volte intervenuto alla Camera contro il governatore Mario Draghi. E oggi la sua associazione mette sotto accusa la Bankitalia per il calcolo dei piani di ammortamento detti «alla francese». A pensar male si fa peccato, ma la sensazione è che si stia consumando una complicata guerra di Palazzo, dove i consumatori non centrano nulla e, anzi, rischiano solo di pagare il conto.
Perché se davvero la «class action» dovesse generare unondata di procedimenti non ci sarebbe molto di cui rallegrarsi. Per due fondamentali motivi. Ogni denuncia ai danni di unazienda rappresenta un costo per quest'ultima: sotto vari punti di vista (a partire dallimmagine). Ma tale onere è destinato a tradursi in minore occupazione, prezzi più alti, qualità inferiore, e via dicendo. Questo non significa che le aziende che sbagliano non vadano portate in tribunale, ma solo che se si abusa di ciò le conseguenze ricadono su molte persone.
In secondo luogo, se la fila delle denunce si allungherà a pagarne il costo sarà la giustizia nel suo insieme, che già ora fa fatica a smaltire il lavoro e che di tutto ha bisogno meno che di unulteriore inflazione di procedimenti.
Nei fatti, il destino della «class action» dipenderà in larga misura dai magistrati.
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