Se il difetto fisico è razzismo politico

Tutti a parlare di "pari opportunità" e lotta alla discriminazione. Ma tra loro i parlamentari non si perdonano nessun handicap: Dini "un rospo", Ferrara "Platinette barbuto", Brunetta "tascabile", Rotondi "testa a kiwi"

Se il difetto fisico è razzismo politico

Se Lombroso entrasse in Parlamento, li farebbe arrestare via tutti. Una retata di musi incarogniti, gnomi, gargoyles, donne cannone, grandi obesi, befane, orbi, pelati e sciancati degna di un circo dei freak. Ma prima che i signori onorevoli montino in bestia, si fermino. E si ricordino come a definirsi mostruosi l'un l'altro siano proprio loro.

Già, perché a ben vedere le Aule della politica non differiscono molto dalle aule delle elementari, dove i bulletti si accaniscono sui bimbi quattrocchi, che portano l'apparecchio o hanno i brufoli. Il difetto fisico, la tara che macchia una fantomatica «bella presenza», è il grimaldello più facile per smontare anche l'avversario di partito, non solo il compagno di banco. E così succede che - accanto alle belle parole per le pari opportunità e la lotta al razzismo - Montecitorio e Palazzo Madama diventino delle sedi staccate dei laboratori del dottor Mengele.

Uno degli handicap meno accettati è quello della statura. Non quella morale, per carità. È che le misure contano, in politica come fra le lenzuola. Colpa di De André e della sua canzone «Un giudice»: ora tutti si accaniscono sul «diversamente alto». Massimo D'Alema, che liquidò il ministro Brunetta come «energumeno tascabile», è solo l'ultimo, insieme al disegnatore Spataro che ribattezzò il ministro Meloni «ministronza». In principio fu un più elegante ed anonimo parlamentare che nel '71, durante il voto per far eleggere Amintore Fanfani capo dello Stato, scrisse sulla scheda: «Nano maledetto, non verrai eletto». Ultimo erede della dinastia dei folletti è Silvio Berlusconi, soprannominato «Al Tappone» da Travaglio e sbeffeggiato in ogni salsa. Tanto da farlo reagire: «Prodi dice che sono basso. Lui è di sicuro più largo».

E qui passiamo all'altra categoria che in questa nuova Sparta andrebbe gettata dalla rupe o abbandonata sul monte Taigeto: gli obesi. Anzi, anche solo i paffutelli. Giù Bettino Craxi, il Cinghialone; giù Spadolini, che Forattini ritraeva elefantiaco e ipodotato; giù Isabella Bertolini, la «cicciona di Modena» (Iva Zanicchi dixit); giù pure Giuliano Ferrara, «il Platinette con la barba» che secondo Travaglio dovrebbe stare al circo «tra la donna cannone e la donna barbuta». E pazienza se Ferrara ha pure dichiarato di essere affetto da una malattia genetica, la sindrome di Klinefelter. D'altronde pure Andreotti era gobbo ma mica l'ha passata franca. Un handicap non vi salverà dalla furia eugenetica.

Se anche sono passati decenni da quella filastrocca in cui si recitavano i nomi dei democristiani «Piccoli, Storti, Malfatti e Malvestiti», l'aria non è cambiata. Nella politica italiana l'apparenza conta, altro che ingannare. E così si potrebbe coniare un altro mantra: calvi, brutti e scheletrici. In particolare, i primi sono più bersagliati dei napoletani a Pontida. Oltre ai magistrati di Tangentopoli che si riferivano a Craxi come al «Pelato», è Travaglio il Torquemada della calvizie. Una vera ossessione, la sua per le chiome, dalle «meches» di Filippo Facci al «riporto asfaltato a rastrelliera» del giudice Marra. Negli anni Travaglio ha poi definito Berlusconi Cavalier Bellicapelli, Crescina, Bellachioma, Foltocrinito e Peluria. Senza contare il soprannome per il ministro Bondi, rinominato «Cantatrice calva» (quando non «Pallore gonfiato»).

Accantonando un momento Travaglio, alfiere dell'offesa discriminatoria (così, per completezza, ricordiamo Maurizio Belpietro «Via col mento», Alessandro Sallusti «Zio Tibia», Mario Giordano «Voce bianca» e Gianfranco Rotondi «Ministro con la testa da kiwi»), anche la bruttezza è una colpa. Lapidata sulla pubblica piazza Rosy Bindi. Da Cossiga, che la definì «brutta, cattiva e cretina», così come da Sgarbi e Berlusconi, che la descrissero come «più bella che intelligente». Una battuta poco cavalleresca in cui il Cavaliere incappò anche con Mercedes Bresso, «che quando si sveglia si guarda allo specchio e si rovina la giornata». Nel mirino anche Lamberto Dini, il premier dall'occhio sporgente che accese un dibattito in Rifondazione: «Baciare il rospo?», si leggeva sui manifesti elettorali.

Eppure neanche gli slanciati si salvano. Fassino? «Troppo magro, gli regalerò un panettone» (copyright Berlusconi). Fini? «Un pennellone», lo definì la Mussolini. La stessa che disse di Bossi: «Sembra una mucca». E si sbarazzò (momentaneamente) del Cav: «Si è rifatto le borse agli occhi e si è dimenticato delle borse degli italiani». E allora via, «leghisti scimmie», Gasparri «faccia da cameriere a cui non hanno dato la mancia», Luxuria «scherzo della natura». Insulti a vista, disprezzo a pelle. Un etto di troppo, due diottrie in meno, un ciuffo bianco e sei fatto. Fuori dal consorzio dei perfetti. Come se ce ne fossero ancora, tra l'altro.

Non resta che fare come Silvio, che a forza di battute non ne ha risparmiata una a se stesso, e quando è nato il nipotino si è rallegrato: «Finalmente uno più piccolo e più pelato di me».

Perché a forza di offese, si è persa l'ironia, mentre l'autoironia non c'è mai stata. Perché in fondo è vero quello che diceva Cioran: «Frequentare gente è un supplizio perché leggiamo i nostri difetti nei loro occhi».

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