Scusate, ma perché dare del «ciuccio» a uno scolaro di Palermo è reato, mentre dare dell’«asino» a un alunno milanese no? Non sarà mica che il vero «somaro» è il giudice? Scherzi a parte e con tutto il rispetto per l’«eccellentissima corte», non si spiega infatti come mai - a parità di epiteto equino - il maestro palermitano sia stato condannato a risarcire mille euro alla parte offesa (vale a dire ai genitori del bimbo - diciamo così - un po’ duro di comprendonio), e invece l’insegnante milanese sia stato assolto con formula piena.
Un raro caso di disparità di giudizio, penserete voi. E invece di opposte interpretazioni «animalesche» sono pieni i tribunali italiani. Circostanza - quest’ultima - che rappresenta già un’anomalia, considerata l’assurdità di magistrati costretti a perdere tempo prezioso dietro sentenze più o meno «bestiali». Ma la legge è legge e l’ingiuria è reato da codice penale. Quindi tutti a Palazzo di giustizia per rivendicare l’onorabilità infangata per colpa di un «porco» detto al vicino durante la riunione di condominio, o di un «verme» strisciato di bocca durante il torneo di scopone scientifico al Bar Sport. Ma attenzione, qui la giurisprudenza comincia a dare di matto peggio di una mucca pazza: mentre infatti per il tribunale di Napoli (sentenza del 1999) dare del «porco» a un uomo «non costituisce offesa all’altrui reputazione», per il tribunale di Campobasso (sentenza del 2007) dare della «scrofa» a una signora è meritevole di «condanna a un mese di reclusione più pagamento delle spese processuali». Ma porco e scrofa non appartengono alla medesima razza suina? Sì, ma non evidentemente alla stessa razza ingiuriosa.
Idem per «cane» e «cagna». Se il «cane» se lo becca (nel senso di insulto) un maschio, non c’è reato; se al contrario la «cagna» è all’indirizzo di una donna, ecco scattare la pena. Ma anche sul fronte dei volatili, l’ornitologia giudiziaria ha visioni opposte: se infatti lei dà a lui del «pappagallo», nulla quaestio; mentre se lui dà a lei dell’«uccello del malaugurio» si ritrova con la fedina penale macchiata. E passiamo ai rettili. Se una donna sibila al suo ex ragazzo, «serpente», rischia la denuncia ma non la condanna; mentre se un fidanzato cornificato dice «vipera» all’ex compagna che l’ha tradito, si ritrova - oltre che con la testa più pesante - anche con un carico pendente giudiziario sul groppone.
Vate indiscusso delle offese «caprine» è invece Vittorio Sgarbi che, dopo essere stato condannato per l’uso del termine «stronzo», ha ripiegato (forse dopo attenta consulenza zoologica-legale) su «capra»: epiteto che Sgarbi ama ripetere a raffica sulla faccia dei malcapitati che osino contraddirlo. E potrà tranquillamente seguitare a farlo, considerato che la Cassazione ha sancito che «capra» non è termine «atto a ledere l’altrui onore». Insomma, «capra» è poco più di un belante apostrofo tra le parole «t’odio». Non così per «iena»: il destinatario della parolina poco ridens è stato infatti considerato dai giudici valdostani meritevole di un risarcimento di ben 2 mila euro. Se non volete rischiare condanne, in alternativa a «capra», ci sarebbe anche «pachiderma» che il tribunale di Palermo ha ritenuto «termine innocuo, se pure vagamente ispirato alla mole fisica della controparte». Ok, ma se il discorso sul «pachiderma» ha una sua logica, perché allora il tribunale di Messina ha pensato di condannare un uomo che si era permesso di dire «balena» alla suocera?
Ma nelle aule di giustizia anche gli «scarafaggi» non sono uguali per tutti. Tolleranti i tribunali di Ancona, Gubbio, Pescara e Piacenza con chi fa un uso troppo disinvolto del termine «bacarozzo»; molto più severi invece, in tema di «insetti», i giudici di Campobasso, Salerno e Reggio Calabria.
A fare la differenza tra un atteggiamento più o meno soft da parte dei giudici è la giurisprudenza basata sui pronunciamenti della Cassazione che - in tema di ingiurie - ha spesso precisato che «a fare la differenza è il tono e il contesto in cui un determinato termine viene adoperato». Così, se dò del «maiale» a un tifoso avversario (ma lo faccio con il il sorriso sulla bocca) la parola viene «depotenziata della sua carica offensiva»; e quindi, con un buon avvocato, ho buone possibilità di essere assolto.
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