Se Draghi azzanna (in ritardo) le regole delle banche europee

All'epoca di Via Nazionale l’attuale presidente della Bce non ha fatto una grande battaglia lobbista. E ora striglia l’Eba per le norme che distruggono il mercato

Se Draghi azzanna  (in ritardo) le regole delle banche europee

La zuppa oggi si occupa del grande casotto che sta acca­dendo all’interno del siste­ma bancario italiano. Abbiamo già scritto come l’intervento di un’Authority europea (Eba)sia sta­to il grilletto della recente grande strage bancaria. E l’audizione del suo numero uno (Andrea Enria), proprio nei giorni scorsi al Parla­mento italiano, ne è la prova uffi­ciale. Il ragionamento svolto dal­l’ex funzionario di Banca d’Italia è il seguente. Il problema dei Paesi europei è il loro ingente debito pubblico.

E fino a qua anche l’ulti­mo arrivato in cucina è d’accordo. Ma proprio per questo motivo, so­stiene il regolatore europeo, chiun­que abbia la carta di debito in por­tafoglio deve rafforzarsi. Il rischio è infatti che salti il banco. Ecco da cosa nasce la raccomandazione di procedere agli aumenti di capita­le. Il ragionamento è diabolico. Qualcuno può vagamente imma­ginare cosa accadrebbe se l’Italia non dovesse ripagare il suo debito. Beh, certo le banche soffrirebbero per via dei titoli detenuti in portafo­glio.

Ma ben peggiori sarebbero le conseguenze derivanti dal fatto che le economie in cui investono i quattrini (i depositi) quelle ban­che si troverebbero in stato coma­toso. Quando è saltata l’Argentina, per le banche di Buenos Aires il pro­blema non era certo il debito pub­blico che avevano nei propri libri, bensì la morte del loro tessuto pro­duttivo. Due giorni fa il governatore del­la Banca centrale europea, Mario Draghi, lo ha detto in modo felpa­to, ma inequivocabile, sostenen­do che le regole Eba siano pro cicli­che.

Insomma, non fanno che ag­gravare la malattia che dovrebbe­ro curare. Si apre così, però, un grande conflitto istituzionale. Le tre banche italiane che dovrebbe­ro ora se­guire Unicredit nel raccat­tare capitali sul mercato hanno già più o meno detto che non accetta­no la raccomandazione europea. E c’è da scommettere che il nuovo numero uno del Monte Paschi di Siena, che dovrebbe raccogliere sul mercato più di quanto capitaliz­zi, sia passato a Siena dalla sua soli­da banchetta locale, con una ga­ranzia da parte di BankItalia: caro Viola, vai pure a mettere in ordine i conti di Rocca Salimbeni, e non ti preoccupare dell’aumento di capi­tale che non ti chiederemo di fare.

Se Unicredit sta facendo fatica nel suo aumento di capitale (che co­munque è di molto inferiore al va­lore di Borsa del titolo prelancio), Banco Popolare e Mps rischiereb­bero ser­iamente di vedere un inop­tato vicino al 100 per cento. E a quel punto sarebbero davvero guai.

Che si potrebbero risolvere, sem­bra pensare Enria, con una soluzio­ne all’inglese: nazionalizzando le banche. Bel risultato: per attacca­re il debito pubblico nazionale, i go­ver­ni si devono mettere sul groppo­ne banche incapaci di patrimonia­lizzarsi. L’eterogenesi dei fini. C’è da chiedersi,però,che gioco abbia giocato il nostro ex governa­tore Draghi nei mesi passati (non cento anni fa) quando delle nostre banchette era regolatore. Nel tam tam delle banche italiane si dice: ha dato assicurazioni sulla sua affi­dabilità europea vendendo una particolare severità nei confronti del nostro sistema creditizio. Di­ciamola più facile: non ha fatto una grande battaglia lobbista in Europa per le nostre banche. Fac­ciamo un esempio, tra i tanti, per essere più chiari. Il problema è quanto capitale, patrimonio, deb­bono avere gli istituti di credito per essere considerati solidi.

Nei Paesi nordici, le banche che impiegano le loro risorse per concedere mu­tui «bruciano» dal 2 al 7 per cento del loro patrimonio complessivo. Da noi la percentuale va dal 10 al 15. Il che vuol dire che i nostri mille miliardi di mutui concessi assorbo­no e, dunque, richiedono spalle più larghe (capitale) di quanto sia necessario che so in Svezia o in Spa­gna. Alla fine dei conti il nostro maggiore rigore imposto proprio dalla Banca d’Italia, paradossal­mente appare come minor dota­zione di capitale. Non si poteva ren­dere omogeneo in Europa questo criterio di assorbimento di capita­le? Tutte questioni aperte che si do­vranno inevitabilmente risolvere nei prossimi dieci giorni. L’Eba, di fatto, non ha un potere vincolante nelle sue raccomandazioni. Le Banche centrali possono in qual­che modo attutirne gli effetti.

È quanto l’universo mondo dei ban­chieri italiani sta chiedendo al go­vernatore Visco e quanto ribadirà nei prossimi giorni all’incontro che si terrà a via Nazionale. Una certa lobby la sta svolgendo anche il governo italiano che è alla ricer­ca, al prossimo Consiglio d’Euro­pa, di una mediazione con gli altri partner europei. Essa sarà tanto più facile quanto più saranno nei guai i francesi. Il downgrading del loro debito comporterà un pesan­te­effetto Eba anche sulle loro ban­che. E a quel punto la partita sarà decisamente in discesa. Il rinvio della follia europea avrà un’imme­diata ripercussione sui mercati azionari. E per questa via un rallen­tamento delle tensioni sui titoli del debito pubblico.

Un bel caso di scuola su come le regole mal fatte possano distrugge­re il funzionamento delicato di quel meccanismo che si chiama mercato. Per anni ci siamo occupa­ti dei suoi fallimenti. Le regole Eba e il formale rigore della politica eu­ropea riportano in primo piano quella vecchia massima austriaca, per cui sarebbe più conveniente occuparsi dei fallimenti dello Sta­to più che di quelli del mercato.

I primi sono però mimetizzati e giu­­stificati da un alto bene comune (che è poi quello stabilito da politi­ci e burocrati) e i secondi dileggiati per il solo fatto che nascono dalla ri­cerca del profitto. Ma questo è un altro discorso.

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