Fate un esame a chi vuole entrare in Facebook. Corsi, professori e infine un patentino. E se uno viene bocciato, non si azzardi mai più a «postare», «condividere» o «taggare». Magari così, con la selezione all’ingresso, si potrà frenare il proliferare di messaggi deliranti che hanno fatto del social network un manicomio per politicanti pronti per la camicia di forza.
La scena è sempre la stessa. Un peone pensa di fare cosa furba e giusta lanciando provocazioni sul suo profilo. C’è chi lo fa trascinato dalla discussione, chi si lascia andare pensando che quella pagina sia intima e segreta come la toilette di casa sua e chi usa la vetrina per farsi pubblicità. Qualcun altro legge, si indigna, monta la polemica, si dà il la al coro delle proteste, partono le richieste di dimissioni e finisce tutto a strumentalizzazioni, dimissioni e vino.
L’ultimo caso è quello dell’assessore ai trasporti del Comune di Lecce, il pidiellino Giuseppe Ripa, il quale ha definito il governatore pugliese Nichi Vendola affetto da «turbe psichiche» solo perché omosessuale, chiamandolo «signorina» salvo poi scusarsi contrito. Effetto déjà vu immediato, dato che solo ventiquattr’ore prima il copione si era ripetuto noiosamente identico ad Albenga, dove il consigliere leghista Mauro Aicardi era stato inevitabilmente lapidato per aver condiviso una soluzione molto anni Quaranta per gli immigrati: «Servono i forni».
L’esistenza di irresponsabili che pensano di essere divertenti lanciando insulti omofobi o razzisti non è ovviamente una novità e non aveva bisogno dei tweet per emergere. Lo è invece il proliferare di questi scivoloni da parte di personaggi delle istituzioni. Si va dal consigliere padovano Vittorio Aliprandi, condannato (e pure pestato dai centri sociali) per aver scritto che «i Rom mi fanno vomitare», al dirigente del Pd di Modena Matteo Mezzadri, che si chiedeva beato «possibile che non ci sia nessuno in grado di piantare una pallottola in testa a Berlusconi?». Assessori, consiglieri, funzionari di paese più abituati ai tavolini dei bar che alle scrivanie di Palazzo. Figuranti che - proprio come al bar, tra un Campari e una briscola -, le sparano senza freni su negri, froci e terroni, padroni, preti e Berlusconi. C’è il leghista che invita a non finanziare la maratona perché «manifestazione di extracomunitari in mutande», il democratico che boicotta la sua stessa città invitando i turisti a non visitarla, il vicepresidente regionale che dà del «rimbambito» a Bossi, il vicesindaco che fa il saluto romano. Destra, sinistra, centro: le corsie del manicomio sono tutte piene.
Il problema non sta tanto nell’idiozia dell’uomo, eterna e immune alla polizia postale e alle denunce per apologia di reato. Sociopatici paranoici come il professore antisemita che minaccia stragi in sinagoga o citrulli anarcoidi come Er Pelliccia, che lancia estintori in piazza e corre a digitare «odio lo Stato» in bacheca, ce ne saranno sempre. Sono nate pagine Facebook contro i bimbi down, a favore dei pedofili e inneggianti alle frane, figuriamoci se si può sperare di eliminare le pagine che inneggiano alla morte dei vari Berlusconi, Gelmini, Brunetta & C. Il problema è pretendere almeno dagli eletti un filtro, un surplus di self control che li differenzi dall’ultrà da stadio. Questione di abitudine, certo, perché le grandi polemiche sui social network non vedono protagonisti politici nazionali, scafati e consci del potere a doppio taglio delle parole digitate, quanto piuttosto anonimi agit prop tutti pancia e pregiudizi, convinti che Facebook sia un palcoscenico low cost su cui esibirsi per elemosinare fan e «mi piace», anche a costo di alzare il livello della provocazione. Come i bambini che maneggiano le armi, a volte colpiscono qualcun altro, molto più spesso feriscono se stessi.
E dunque, se non vogliamo che un nuovo Basaglia chiuda Twitter e Facebook, tenete i social network fuori dalla portata di questi alfieri del politically stupid. Perché se la madre dei cretini è sempre incinta, quella dei social-babbei è geneticamente predisposta alle gravidanze plurigemellari.
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