Poco meno di un anno fa iniziò il tormentone della casa di Montecarlo che si trascinò
per un paio di mesi, poi fu accantonato, quindi dimenticato sotto un
velo pietoso. Si tranquillizzi Gianfranco Fini, non abbiamo intenzione
di rinfrescare la memoria ai lettori, almeno su questo punto. Tutti,
pensiamo, hanno capito come andarono le cose. Piuttosto ci preme
ribadire che la nostra non fu una campagna denigratoria,ma un’inchiesta
condotta con la massima onestà, basata su documenti e testimonianze.
Non avevamo altre finalità se non quella di dimostrare
l’intramontabilità di un cattivo costume italiano: quello di fare follie
per assicurarsi un alloggio di favore, a poco prezzo, preferibilmente
gratis.
Non abbiamo mai addebitato a Fini dei reati: ci siamo
limitati a osservare come anche lui, al pari di tanti politici e non
politici, sia stato imprudente nel maneggiare il mattone, peraltro
finito al cognato. Già, la famiglia, i parenti, le fidanzate e i
fidanzati: altri problemi italiani da cui discendono tanti guai, come
si è constatato anche in questi giorni di turbolenze a Palazzo e
dintorni. Ma lasciamo perdere. Veniamo piuttosto al ruolo strano
ricoperto dal presidente della Camera nel biennio 2009-2011.
Molti rammenteranno che fu proprio Il Giornale a
sollevare la questione dell’incompatibilità di Fini con la linea
impressa da Silvio Berlusconi al governo. L’ex presidente di Alleanza
nazionale,infatti,era passato da legittime critiche al premier a veri e
propri attacchi, alcuni irridenti, altri pesantissimi, altri ancora
demolitori della persona. Il che, se da un canto metteva in imbarazzo
il Cavaliere e il Pdl, dall’altro autorizzava l’opposizione a sperare
che il partito di maggioranza relativa fosse destinato a sfasciarsi.
Ecco perché la sinistra, a ogni parola aspra di Fini contro il
presidente del Consiglio, esultava, applaudiva. Era convinta che se il
dissenso interno al Pdl avesse assunto forme più organizzate, la
maggioranza si sarebbe autodistrutta in fretta.
Il calcolo non era sbagliato. Tra l’altro Farefuturo, fondazione finiana che aveva in Filippo Rossi un polemista efficace, divenne il braccio armato del cosiddetto cofondatore. Ogni giorno una mitragliata su Berlusconi, sulla Lega, sul berlusconismo in genere. In poco tempo l’aria nella coalizione divenne irrespirabile. Di qui la nostra idea di scrivere una serie di articoli sul tema: «Ma dove vuole arrivare Fini?».
Ne
bastò uno a provocare un pandemonio. Fummo accusati di essere
ventriloqui del Cavaliere, il quale invece era ignaro della nostra
iniziativa come di altre. Ma è inutile tornare sull’argomento:alla
verità non si crede mai perché la dietrologia è molto più
appassionante.
Da quel momento, la crisi nel Pdl divenne
endemica. E nell’aprile del 2010 si capì che sarebbe andato tutto a
rotoli. Il diapason della tensione si toccò nella famosa riunione di
partito in cui la terza carica dello Stato si alzò e,col dito puntato
sul Cavaliere,disse all’alleato: «Che fai, mi cacci?». Non è mai
stato chiarito se poi sia stato davvero cacciato o se ne sia andato,
però è un fatto che Gianfranco tolse l’incomodo e si mise a lavorare per istituire un
gruppo autonomo in Parlamento, con la prospettiva di varare il Fli che,
avendo un’assonanza col Flit, l’insetticida, non venne mai preso sul
serio. Eppure il progetto finiano, dalla fase embrionale a quella della
realizzazione, fu accompagnatodall’approvazione entusiastica
dell’intera opposizione. Tant’è che le previsioni dei più autorevoli
commentatori erano ispirate all’ottimismo: finalmente l’Italia avrà
una destra potabile, moderna, diversa dal gruppo pasticcione guidato
dal dittatore di Arcore.
Entrambe le manifestazioni pubbliche degli
eretici finiani, durante le quali fu spiegato al popolo quali fossero
le idee fondative del Fli, vennero trasmesse in diretta da fior di
emittenti televisive. Eventi giudicati importantissimi per la
democrazia patria. Personaggi non di primissimo piano, quali Italo
Bocchino, Fabio Granata e Carmelo Briguglio,all’improvviso salirono alla
ribalta e bucarono il video, guadagnandosi una discreta fama. Fini era
l’uomo del giorno, corteggiato e stimato in quanto era opinione diffusa
che avrebbe disintegrato il centrodestra, aprendo la strada a una
nuova maggioranza e a un governo tecnico, o di transizione, grazie al
quale sarebbe poi avvenuta la normalizzazione del Paese.
In effetti i finiani transfughi dal Pdl furono più
numerosi rispetto alle stime elaborate dallo stato maggiore
berlusconiano: oltre 30. Sufficienti a formare un gruppo indipendente e a
limare la maggioranza ai limiti della sopravvivenza. Quando si trattò
di verificare i numeri in Parlamento, votando la fiducia la governo,
il Cavaliere si salvò per il rotto della cuffia. Un miracolo che si
ripeté anche più avanti.
Col trascorrere delle settimane accadde un
fenomeno: il Fli dimagrì sensibilmente e la coalizione riprese
consistenza. L’erosione della nuova destra, su cui tanto aveva puntato
Fini in-citato dalla sinistra, continuò inesorabile fino a ridurre il
Fli ai minimi termini. Molti fra quelli che si erano accodati al leader
fecero macchina indietro e tornarono alla casa madre o si acquattarono
nei paraggi. Adesso il Fli è poca cosa e non ha più alcuna influenza
politica.Sarà per questo che l’opposizione non lo sponsorizza più e
trascura Fini. Il quale Fini è letteralmente sparito dalla
circolazione. La tivù lo ignora e i giornali pure. Alle elezioni
amministrative, benché alleato con Pier Ferdinando Casini e Francesco
Rutelli, il presidente della Camera ha rimediato un pugnetto di suffragi
talmente esiguo da essere inapprezzabile. Fallimento su tutti i
fronti.
Gianfranco ha conservato la poltrona più alta di
Montecitorio, peraltro ottenuta grazie alla coalizione da lui tradita,
ma ha perso quella di cofondatore - cioè di numero due del Pdl e,
soprattutto, non ha più una sola chance di risalire la china e di
rientrare nel grande giro della politica in posizione da leader.
Inevitabile chiedersi chi glielo abbia fatto fare di scatenare la guerra
nel Pdl, in particolare contro Berlusconi, di amoreggiare con la
sinistra (alienandosi la simpatia e la fiducia dell’elettorato
impropriamente definito moderato), di abbandonare il partito per
intraprendere un’avventura che si è rivelata una sciagura.
Ne siamo dispiaciuti. Il galateo del giornalismo
vieta ai cronisti di scrivere: io l’avevo detto.Stavolta infrangiamo
la regola, eccezionalmente, perché quando pubblicammo gli articoli
critici (nel 2009 e anni successivi) la nostra intenzione non era di
sicuro quella di spingere il presidente della Camera a sbattere la porta
del Pdl; al contrario ci prefiggevamo di dissuaderlo dall’insistere
con le prediche antiberlusconiane, persuasi che convenisse a lui ( e al
centrodestra) lavorare per la concordia nel partito onde scongiurare
il pericolo di rovinare se stesso e la maggioranza, indubbiamente
danneggiata dalla rottura.
Fini non era certo obbligato a far tesoro dei
nostri rimbrotti e consigli, ma poteva almeno accogliere l’invito a
riflettere sui rischi che correva. Invece, niente. Peggio: ci accusò di
averlo ricattato e minacciato, perché avevamo scritto che sbagliava a
caldeggiare la riapertura di una vecchia inchiesta sulla mafia
(riguardante anche Berlusconi), facendogli notare che, qualora fosse
passato il principio che le storie giudiziarie non sono mai concluse,
anche un processo per una vicenda a luci rosse, in cui erano stati
coinvolti uomini usciti dalle file di An, avrebbe rischiato di essere
ripescato. Il che non avrebbe giovato né a lui né ai suoi ex camerati.
Era una semplice considerazione. Altro che minaccia, altro che ricatto, visto che poi Fini in quel processo scabrosetto non ebbe parte alcuna. Questo per dire come, di equivoco in equivoco, di polemica in polemica, il presidente della Camera si sia intorcinato senza più trovare la forza di districarsi.
Peccato, perché oggi, con l’aria che tira, un Fini savio e saggio sarebbe stato una risorsa. E magari sarebbe scoccato il suo momento. Invece si è smarrito. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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