Quando Luigi Zingales e Raghuram G. Rajan scrissero quel loro fortunato libro intitolato Difendiamo il capitalismo dai capitalisti (Einaudi, 2008) si fecero interpreti di convinzioni comuni a molti. Sono spesso infatti proprio gli uomini d’impresa a minare il mercato nei suoi principi: ottenendo aiuti, protezioni, tutele. Ma non c’è solo questo.
Il rilievo con cui ieri l’inserto culturale «Domenica» del Sole-24 ore ha celebrato l’imminente “prima” dello spettacolo La compagnia degli uomini di Edward Bond (al Piccolo Teatro Grassi di Milano, da domani al 26 febbraio) è la riprova del fatto che talora ad accusare il mercato di veri o presunti crimini sono proprio imprenditori e finanzieri. Al centro della pièce del drammaturgo britannico - evento al quale l’inserto culturale ha dedicato la storia di copertina, cinque pagine in tutto - c’è infatti la tesi che il capitalismo sia un sistema delinquenziale. La vicenda narra di una famiglia di imprenditori, con un figlio che partecipa a un complotto contro il padre e poi, colpito dai rimorsi, si toglie la vita. Ma è interessante che sia proprio il quotidiano della Confindustria a sposare le tesi di Bond e che il libro stesso, peraltro, sia pubblicato da Scheiwiller, del Gruppo 24 Ore.
La storia non è nuova. Basti ricordare che fu il rampollo di una delle più ricche dinastie industriali lombarde, i Feltrinelli, a fondare quella casa editrice che continua a essere una delle realtà più importanti della cultura anticapitalistica. Qualche decennio prima la Germania aveva conosciuto una figura come Walther Rathenau, detto il «capitalista rosso», e negli Stati Uniti non meno noto fu Armand Hammer, petroliere e grande amico dell’Unione sovietica.
Più in generale, quando ci si chiede perché tanti capitalisti disprezzino il mercato, trovare una risposta non è semplice. In qualche caso ciò discende dalla difficoltà a comprendere un sistema complesso, che non assomiglia per nulla a una macchina (prima progettata e poi realizzata) e che invece si avvantaggia delle iniziative in apparenza non coordinate di milioni di persone. Chi sa gestire un’impresa non necessariamente possiede gli strumenti concettuali utili a capire la superiorità degli ordini decentrati (mercato) su quelli accentrati (dirigismo).
Va anche aggiunto - e non a caso si è partiti dal libro di Rajan e Zingales - che in molti Paesi, e l’Italia non fa eccezione, il capitalismo è tutto fuorché aperto e competitivo. Quando osserviamo le economie a «capitalismo reale», ossia le nostre socialdemocrazie, ci imbattiamo in aziende che realizzano utili non già poiché servano bene i consumatori, ma perché in un modo o nell’altro li hanno asserviti utilizzando la legge e i legami con il potere.
Il senso di colpa di numerosi industriali è allora in parte il frutto di condizionamenti culturali (perché lo statalismo ha trionfato a 360 gradi), ma in parte è più che giustificato. Invece che restituire a consumatori e contribuenti i loro diritti, si preferisce cavalcare il facile moralismo di un’intellighenzia genericamente schierata dalla parte del Bene Comune: nemica del profitto e convinta di dover «umanizzare» un sistema giudicato nemico dell’uomo.
Nell’intervista pubblicata ieri sul Sole, il drammaturgo ha riesumato le solite accuse contro il mercato, che va rigettato perché «ha distrutto la nostra cultura, l’ha trivializzata», perché condividerebbe molti principi con la mafia («non prova sentimenti, sopravvive attraverso la regola dei più forti e dei più crudeli»), perché «è diventato il nuovo totalitarismo», perché addirittura mette a rischio la nostra stessa democrazia... È però facile replicare che la civiltà è sempre stata strettamente legata alle libertà di mercato: nel caso della filosofia greca come al tempo del Rinascimento. E certo non si può avere alcuno sviluppo delle potenzialità umane dove l’autonomia della persona non è rispettata.
Non bastasse questo, perfino la nostra capacità di provare sentimenti è almeno in parte connessa al capitalismo, se si considera che la morte di un figlio di pochi mesi è diventata una tragedia solo da quando il miglioramento delle condizioni di vita ha ridotto la mortalità infantile.
L’anticapitalismo che a più riprese affratella imprenditori e intellettuali non ha validi argomenti, ma non per questo è meno pericoloso. Una debole teoria può promuovere una potente realtà sociale; e d’altra parte non vi sarebbe alcun rischio di derive populiste se le cose non stessero così. C’è però anche qualcosa di diverso eppure convergente.
Quando nel 1986 Robert Nozick si chiese per quale motivo la maggior parte degli intellettuali avversi il mercato, la sua risposta fu che si tratta di soggetti dotati di indubbie qualità i quali sono rimasti tra i banchi anche in età adulta - come docenti - e per questo sono abituati a guardare alla società come a una grande scuola, che dovrebbe premiare soprattutto i meritevoli. Il mercato però funziona secondo regole sue e in molte occasioni avvantaggia i fortunati (perché no?) e quanti sanno mettersi al servizio delle richieste più diffuse. Un professore di greco ha meno popolarità di un cantante, uno scienziato non guadagnerà mai ciò che invece ottiene un calciatore in pochi mesi.
È ragionevole ritenere che queste logiche, però, non dominino solo gli uomini di cultura. Gli intellettuali e gli imprenditori che detestano il mercato non sono allora accomunati soltanto da analoghe convinzioni populiste, ma anche da un elitismo che li porta a disprezzare quella moltiplicazione dei consumi a seguito della quale il successo è spesso deciso dalle casalinghe di Voghera, sui cui gusti in materia di musica o teatro si può sicuramente avanzare qualche perplessità.
Questo avveniva anche in passato e certo l’anticapitalismo delle élite è vecchio quanto il capitalismo. C’è però da domandarsi se quest’ultimo riuscirà a sopravvivere a lungo, e in quali condizioni, se perfino molti imprenditori nutrono nei suoi riguardi tale disprezzo.
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