A Cracovia è un pomeriggio di luci elettriche e buio in un sabato prenatalizio. Dalla piazza centrale, dallo Stary Rynek, il mercato vecchio, parte via Grodzka. Incamminandomi, sulla sinistra trovo la Chiesa dei Domenicani. Una folla da concerto sta entrando lentamente. Mi lascio fagocitare dal portone centrale della grande chiesa. All'interno, nella penombra, almeno mille persone seguono la fine di una Messa. Altre, centinaia, come me, stanno entrando, in silenzio. Per terra non potrebbe cadere neppure uno spillo: i corpi sono pigiati gli uni contro gli altri. Morbidamente, senza spinte, le mille persone iniziano ad uscire e noi prendiamo posto.
Aspettiamo. Non so bene che cosa. Resto perché c'è caldo e fuori si gela, resto perché l'atmosfera è magica. Resto per curiosità, mi guardo intorno, sono quasi tutti ragazzi, sorridenti e silenziosi.
La folla si apre e otto sacerdoti, sfilano energici come una squadra di calcio ad una finale; come una compagnia d'attori pronti al debutto. In testa, il primo: porta un crocifisso di legno, come fosse uno stendardo. Al centro incede un robusto frate: alto, grasso e rasato, lo sguardo limpido e deciso. A chiudere il corteo un ragazzo smilzo, con la barba incolta; arrivato all'altare alza il Libro, come un trofeo.
Il frate alto, grasso e rasato apre le braccia in un gesto che impiegherei mille anni a far ripetere ad un buon attore e abbraccia tutta la comunità. Ci tiene, tutti insieme, per qualche secondo.
Il rito scorre veloce, i gesti sono concreti, la voce è forte, decisa, maschile. Nulla è «buttato via», ogni movimento diventa gesto, significato, senza scadere nella retorica vuota.
La predica è affidata al ragazzo smilzo, con la barba incolta. Sembra Spike, l'amico di Hugh Grant in Notting Hill. E di Spike ha i tempi comici: alza il Vangelo nella mano destra, nella sinistra ha una rivista di gossip. Infila una battuta dopo l'altra; non capisco le parole, ma la gente ride, ordinatamente, ride. Mette a confronto i consigli dell'oroscopo e le frasi del Vangelo, poi chiede: qual è la Dobra Novina, la Buona Novella? I ragazzi sono con lui. La funzione sta terminando, questa volta siamo noi i mille che tra poco usciranno, mentre altri, centinaia, sono già accanto a noi, pronti a scivolare al nostro posto, in questa gelatina umana che ormai è un tutt'uno,
Tocca al primo frate, quello che aveva portato il crocefisso come uno stendardo, chiudere. Ma ho già capito che questa messa vale dieci master di comunicazione e infatti, prima di dire «andate la messa è finita» ricorda le notizie principali del blog della loro chiesa con la stessa forza con cui scolpirebbe i dieci comandamenti.
Il corteo degli otto riparte, in senso contrario: sempre con il crocifisso in testa, col prete grasso al centro e con il Libro come un trofeo in coda, riattraversa la grande Chiesa.
Cinque minuti e si rialzerà il sipario.
Fuori, parlo con alcuni ragazzi, mi spiegano che questa è la chiesa degli studenti, si ritrovano lì. Leggo il «cartellone»: dodici messe in un giorno, compresa una messa in inglese.
M'incammino, nella sera che è scesa, con dentro di me l'emozione che si ha dopo un grande spettacolo, dopo un grande rito collettivo. Qui, in Polonia, le chiese sono piene, stracolme; i teatri son pieni di gente d'ogni età, d'ogni estrazione sociale.
Ci deve essere qualcosa, un mistero che riesco solo a sfiorare: qui Teatro e Chiesa, le due architetture «inutili» nella città contemporanea dell'Ovest, riacquistano la loro centralità. Qui le due architetture anacronistiche, case di due riti assolutamente superflui, rimandano la sacralità dell'una alla teatralità dell'altro.
Certo, non si può semplificare, dietro ci sono segni stratificati negli anni, dove l'essere cattolico o vivere la propria identità culturale andando a teatro era già una silenziosa ribellione al regime. Non si può semplificare, d'accordo, ma qui, in questo Est così vicino, i riti diventano emozioni condivise.
Il gesto del frate alto, grasso e rasato che apre le braccia. La bandiera che si saluta in piedi e sull'attenti. Il pranzo di Natale a cui davvero non si può mancare.
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