«Dopo una ripartenza fulminante, avevo il problema di girarmi ma con uno stop a seguire mi liberai del diretto marcatore e, dopo aver inquadrato lo specchio della porta, tirai una rasoiata che fece la barba al palo entrando in rete alle spalle dell’incolpevole portiere». Ecco, se pensate che i calciatori, e gli sportivi in generale, scrivano e parlino sempre come un telecronista, vi sbagliate. Almeno nel caso di Zlatan Ibrahimovic e Andre Agassi, incoronati dalla critica e dal pubblico mondiale come scrittori di razza.
E in effetti, a essere onesti, di fronte a Io, Ibra (Rizzoli) o Open (Einaudi), anche il lettore disinteressato alle rovesciate o al serve and volley non sente la mancanza dei vari Erri De Luca o Andrea Camilleri o Gianrico Carofiglio o anche il 90 per cento degli autori d’alta classifica. Del resto, non saranno tutti milanisti i quasi 200mila italiani che hanno letto l’autobiografia della svedese; e per allontanare il sospetto di partigianeria aggiungo: sono tifoso della Cremonese. Però il libro di Zlatan me lo sono bevuto con enorme piacere e crescente stupore.
Saranno forse quelle prime cento pagine, in cui lo svedese famoso non solo per i suoi goal ma anche per certi colpetti proibiti, racconta nell’ordine: come il suo individualismo abbia fatto saltare in aria l’insopportabile spogliatoio del Barcellona di Pep Guardiola, una squadra dove, nonostante i numerosi fuoriclasse, il collettivo è tutto, e diventa addirittura collettivismo; come diventare una star partendo da un quartiere suburbano di Malmoe in cui è meglio non fare troppo i furbi, soprattutto se si è figli di immigrati dei balcani e inseriti in una famiglia con qualche problema in più rispetto alla media; come imparare a giocare puntando sulla tecnica per riscattarsi e lasciare tutti a bocca aperta al campetto dietro casa; come infischiarsene di ogni gerarchia che non sia quella della bravura, per cui non c’è vecchia gloria che tenga, tutti si devono sottomettere al carisma di Ibra; come farsi fregare ingenuamente dei soldi nel corso del primo trasferimento importante (all’Ajax di Amsterdam) e quindi imparare, grazie a un agente italiano, a «infinocchiare» i successivi clienti. E mi fermo qui. A questo punto, resistere è impossibile: bisogna arrivare fino in fondo. Chi prosegue, viene premiato in continuazione. A esempio da una serie di ritratti meravigliosi.
Ecco Fabio Capello, riservatissimo e incazzosissimo ma anche rispettatissimo e amatissimo dai suoi giocatori più talentuosi. E poi Luciano Moggi. Un uomo di potere, di cui non è facile fidarsi. Un uomo che negli spogliatoi, dopo lo scoppio di Calciopoli, non ha paura di mostrarsi vulnerabile, piangendo di fronte a tutti, e guadagnandosi per questo l’appoggio «a prescindere» di Zlatan. E ancora José Mourinho, uno smargiasso con i media, uno zuccherino con i suoi campioni, con i quali cerca anche un confronto personale.
Dell’autobiografia di Agassi, bellissima, già si è molto parlato. Come quella di Ibrahimovic si è affacciata in classifica e ovunque ha avuto ottime recensioni. Di recente se ne è occupato anche la seriosa rivista Nuovi Argomenti, con un articolo di Arnaldo Greco che misura proprio la distanza siderale tra Open e altri «classici» del genere, di solito ritenuti, con snobismo ma con qualche ragione, la serie C dell’editoria (per dire, lo scaffale dello sport in libreria è accanto all’astrologia, ai trattati sui massoni e alle profezie dei Maya). Gli altri tennisti, dopo aver vinto un torneo del Grande Slam, si sentono «elettrizzati». Agassi invece racconta un’altra storia: «Io non credo che Wimbledon mi abbia cambiato. Anzi, ho la sensazione di essere stato messo a parte di un piccolo, ignobile segreto - vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta».
Naturalmente, Ibra e Andre hanno chiesto una mano, anzi: una penna, agli amici. Il tennista si è fatto aiutare da un premio Pulitzer, J.R. Moehringer, corrispondente del Los Angeles Times e autore del romanzo Il bar delle grandi speranze (Piemme).
Ibra ha invece arruolato David Lagercrantz, sconosciuto da noi ma ben noto in Svezia: è autore di biografie di personaggi fuori dagli schemi siano essi alpinisti o matematici. Ha scritto anche un romanzo. Va bene. Ibrahimovic e Agassi hanno usato il ghost writer, ma cosa importa? C’è comunque più vita tra queste pagine che in tutta la romanzeria italiana media.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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