Cinquanta libri, 12mila foto, quarant’anni. Se si volesse riassumere una vita in cifre, quella di Jack London (1876-1916) racconterebbe una produzione sterminata in un arco di tempo brevissimo: la prima raccolta di racconti, Il figlio del lupo, è del 1900, l’ultimo romanzo, Il figlio del mare, di sedici anni dopo, quando morì, e ci sarà poi ancora spazio per i postumi Jerry delle isole e Michael... Per le immagini, il ritmo è ancora più serrato, dall’esordio del 1902 sui bassifondi di Londra, a quello sulla rivoluzione messicana del 1914.
Se lo scrittore è universalmente conosciuto, tradotto e ormai sdoganato dal cono d’ombra della letteratura popolare, ma priva di dignità artistica, che pesò su di lui fino a tutti gli anni ’60 del ’900, il fotografo viene ora riscoperto grazie al bellissimo libro su London fotografo (39 euro) che la University of Georgia Press negli Stati Uniti e ora le edizioni Libelle in Francia hanno dato alle stampe: una selezione di 200 immagini che i curatori Jeanne Campbell Reesman e Sara S. Hodson hanno affidato alla cura tecnica di Philip Adam. Una festa per gli occhi e un incredibile tuffo nel passato.
In quel XX secolo allora agli inizi, London fu il testimone oculare del «popolo degli abissi» della capitale britannica, un mondo di miseria, abbrutimento, ingiustizia; della guerra russo-giapponese del 1904, vista sul fronte coreano; del terremoto e del successivo incendio che distrusse San Francisco nel 1906. E poi gli indigeni dei mari del Sud, l’isola dei lebbrosi di Moloka’i, l’estinzione dei polinesiani di Typee, incontrati durante la navigazione oceanica con lo Snark, il veliero da 12 metri da lui fatto costruire, l’invasione di Vera Cruz da parte statunitense durante la rivoluzione messicana.
Le immagini e le corrispondenze sulla guerra in Corea colpirono talmente l’opinione pubblica e l’immaginazione dei lettori che, ancora mezzo secolo dopo, Hugo Pratt farà dell’incontro fra Corto Maltese, London e «il soldato russo perduto» Rasputin il punto di partenza della sua saga. Il racconto londoniano Accendere una fiammata, storia di un uomo che, vittima del freddo, decide di morire con dignità, tornerà invece come un flash nella mente di un Che Guevara incalzato a Cuba dai soldati di Batista e convinto ormai della propria fine...
Il primo apparecchio professionale usato da London fu una Kodak 3° di quelle a soffietto e della grandezza, una volta chiusa, di una cartolina, nota Philip Adam. «La sua voglia di raccontare per immagini lo spinse a scoprirne le potenzialità e a cogliere tutte le occasioni per servirsene. I suoi scatti sono la testimonianza di un’acuta sensibilità mista a compassione, a rispetto e ad amore per l’umanità». Sotto questo profilo, il reportage dedicato ai diseredati che vivevano nel cuore e però ai margini dell’impero britannico, è una testimonianza unica e la spiegazione convincente del perché Karl Marx potesse concepire Il Capitale proprio a Londra e Charles Dickens ambientarvi Oliver Twist... Per tre mesi London visse come un paria fra i paria, dividendone fame e intemperie, paura e umiliazioni.
Curioso impasto di darwinismo, niccianesimo, socialismo, London scrisse la vita che andava vivendo. Martin Eden, il suo romanzo di maggior respiro, racconta di un uomo che agisce solo per se stesso, combatte solo per se stesso e muore, in fondo, solo per se stesso. Deluso da tutto, individualista coerentemente quanto totalmente avulso dai bisogni collettivi del mondo circostante, non gli resta, notava il suo autore, nulla per cui combattere e vivere. E così muore. Autobiografico sotto il profilo della lotta per imporsi a petto di un mondo sentito come ostile, Martin Eden era però l’opposto del London che, testardamente, aveva fede nell’essere umano: «Attendo con ansia il tempo in cui l’uomo compirà un progresso verso qualcosa che valga e che sia più importante dello stomaco. Continuo a credere nella nobiltà e nell’eccellenza dell’uomo. Credo che la dolcezza spirituale e la generosità conquisteranno la volgare ingordigia odierna».
Di questo sentimento generoso e infantile, l’idea di un’umanità «calorosa, fallibile, fragile, sordida, meschina, anche grottesca, eppure al tempo stesso pervasa da lampi e bagliori di qualcosa di più sottile e divino», le foto del volume danno piena testimonianza: non c’è mai compiacimento, mai ricerca dell’effetto. Visi di vecchi, bambini, malati e soldati, nudità di indigeni, stanchezze sui campi di battaglia, prigionieri di guerre che non sanno per chi e per cosa stavano combattendo: su tutto ciò London posa sempre un occhio lucido e commosso.
Dietro la naturalezza dei suoi reportages c’era comunque la volontà ferra di non farsi distrarre, non farsi fermare, che in tempi di pace e di catastrofi naturali lo portò spesso al limite delle sue stesse risorse umane, e in tempi di guerra lo vide più volte rischiare la vita, arrestato e imprigionato perché preso per una spia... Così questo libro è anche un omaggio al febbrile e fragile cantore di una libertà che fosse per tutti.
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