Se Marta vuole bloccare l’ultima nave del cantiere

(...) Una sinistra che è persino più comunista di quella toscana, che pure non scherza. Una sinistra che non è nemmeno lontana parente di quella torinese (simboleggiata dall’ex sindaco Sergio Chiamparino, molto più che da quello attuale Piero Fassino), nonostante mi abbia fatto molto piacere sentire che Roberta Pinotti proprio a Chiamparino si ispira. Anche se riesce benissimo, fino ad oggi, a non farsene accorgere troppo, al di là delle dichiarazioni nelle interviste.
Proprio per questi motivi, proprio per misurare l’aria che tira nella nostra città, proprio per raccontare come siamo passati da essere il primo centro d’Italia in mille settori - esempio e modello per tante altre città, Milano compresa - a periferia dell’impero, raccontare il caso Fincantieri è raccontare Genova. Quindi oggi e nei prossimi giorni ci dedicheremo alla vertenza in corso come cartina di tornasole su un certo modo di ragionare nella nostra città, come termometro della gravissima febbre di cui siamo malati. Spesso senza rendercene conto, senza nemmeno provarla, convinti di essere sani. Tragicamente mitridatizzati, assuefatti.
E qui partiamo dal fondo. Dal fatto che, in questo momento, nel cantiere di Sestri Ponente c’è una nave. Ma è l’ultima, la fine dei lavori è prevista per marzo e, dopo che avrà lasciato il cantiere, al momento non è previsto che ne arrivino altre. Non perchè l’amministratore delegato di Fincantieri Giuseppe Bono sia brutto (oddio, proprio un adone non è); non perchè in azienda siano tutti cattivi; non perchè ci sia un complotto contro Sestri, come pure qualcuno ha ipotizzato. Molto più semplicemente, perchè il mercato mondiale - non sestrese, non genovese, non ligure, non italiano - ordina poche navi.
Questo è il quadro. E una parte del sindacato ha pensato di «tenere sotto controllo la nave che deve essere finita entro marzo». Cioè si penserebbe a non far andare in mare la nave se non ci sono altre commesse. Semplicemente, bloccandola.
Ecco, credo che questo sia il modo migliore per non fare mai più arrivare navi a Sestri. Nè oggi, nè domani, nè mai. Un modo di applicare la storia del marito che se li taglia per far dispetto alla moglie al settore navalmeccanico. Perchè è chiaro che se un cantiere passa per inaffidabile e non consegna le navi nei tempi previsti, difficilmente a qualunque armatore del mondo verrà in mente di affidare un’altra nave a quel cantiere. Anzi, ammesso e non concesso che l’armatore decidesse di dare un’altra commessa a Fincantieri, certamente metterebbe fra le clausole la previsione che la nave non venga affidata al cantiere genovese, poco affidabile sui tempi di consegna. Non mi pare che ci voglia il premio Nobel per l’economia per realizzare questo concetto.
Eppure, qualche giorno fa, sul Secolo XIX è uscito un articolo di Samuele Cafasso, uno dei più documentati giornalisti portuali, in cui (mai smentita) Marta Vincenzi commentava l’ipotesi che Giuseppe Bono potesse diventare presidente di Confindustria di Trieste e Gorizia. Una notizia che, se confermata, rappresenta l’ennesima prova del fatto che il manager di Fincantieri, con il suo eloquio al peperoncino e la sua capacità di gestire le relazioni sindacali in modo piccante, resta molto quotato. Checchè ne dicano a Genova e checchè ne abbiano pensato in passato nella Confindustria genovese che, anzichè coccolarselo, gli aveva dato schiaffoni gratuiti. Fra l’altro - particolare non secondario - in questo periodo in cui le industrie di Stato non se la passano benissimo, Bono non è mai stato neppure sfiorato da un’intercettazione. Però.
E invece Marta, partendo dalla storia di Gorizia e Trieste: «Se così fosse ci sarebbe una compartecipazione di interessi che Giuseppe Bono farebbe bene a chiarire, spiegandoci quali sono le prospettive di Sestri.

Qui la situazione è esplosiva; se non ci saranno risposte a breve sarà difficile per me, come sindaco, non essere a fianco dei lavoratori qualora decidessero di intraprendere proteste dure come il blocco della nave in consegna a marzo».
Perfetto esempio delle parole che chi ha un ruolo istituzionale non dovrebbe mai dire.
(1-continua)

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