Le classifiche sulla qualità della vita nelle città e nelle province italiane sono un po’ ballerine. La collocazione nella graduatoria varia anche fortemente nelle diagnosi stilate da La Sapienza e Italia Oggi e dal Sole-24 ore. Così, ad esempio, in una Milano è al ventunesimo posto e nell’altra al quarantanovesimo. Ma un dato appare univoco. Il Meridione è, nel suo complesso, nelle posizioni di coda, e Napoli è in coda al Meridione. Non escludo che fattori della cronaca più attuale - ad esempio l’immondizia dilagante - abbiano contribuito a penalizzarla. Ma resta acquisito, o addirittura peggiorato, il degrado del Mezzogiorno. Nella graduatoria «La Sapienza-Italia Oggi» che abbiamo pubblicato ieri il capoluogo più meridionale dei meglio classificati è Siena. Tutti gli altri le stanno a Nord.
Sarebbe frettoloso e ingiusto trarre motivo per accusare di incapacità il Mezzogiorno d’Italia nel suo complesso, inclusi i molti bravi cittadini che vi risiedono e che sono i primi a stigmatizzarne i difetti. Vorrei soltanto che fosse evitato, da chi si erge a difensore del Sud, un alibi sistematicamente invocato, e assurto per alcuni a dogma di fede, nelle polemiche sul centocinquantesimo anniversario dell’Unità. L’alibi è questo: il Sud soffre perché un secolo e mezzo fa i piemontesi se ne impadronirono, arraffando le ricchezze smisurate e cancellando le tracce d’un regno prospero, progredito, altamente civile. Vorrei che questo ritornello ci fosse almeno una volta risparmiato. Centocinquant’anni sono un bel po’ di tempo: durante il quale imperi sono sorti e scomparsi, due guerre mondiali sono state combattute, le società evolute hanno conosciuto mutamenti epocali, un paese prima arretrato e poi sottoposto all’oppressione comunista come la Cina ha conquistato il proscenio, gli sconfitti dell’ultimo grande conflitto - Germania, Italia, Giappone - si sono dimostrati a lungo più vitali dei vincitori. E noi stiamo ancora qui a gingillarci sulle appropriazioni e sugli eccidi sabaudi, come se fossero roba di ieri e come se valutazioni più attendibili non avessero visto nell’assetto sociale e nel costume del Sud le premesse di alcuni guasti successivi? Nessuno vuol negare errori, tracotanze e anche efferatezze piemontesi. Ma inseriamoli nella loro epoca storica, non facciamone il pretesto per recriminazioni a lunghissima scadenza.
Emerge, dalle classifiche accennate, un altro elemento. In posizioni di testa stanno province e città di quel Trentino e di quel Lombardo Veneto che furono amministrati - bene - dall’impero austroungarico e che passarono anch’essi, subendone danni, sotto la gestione del Regno d’Italia, di sicuro meno efficiente. Ma del dominio austriaco sono rimaste tracce positive nello spirito civico. Quali tracce dell’età dell’oro borbonica rimangono a Napoli, città stupenda, culla di una intellighenzia straordinaria, che tuttavia giace sul fondo del barile? Su una valutazione seria di questo divario, piuttosto che su rivendicazioni d’un lontano passato dalle opinabili virtù e grandezze, deve fondarsi a mio avviso il dibattito sulle impietose classifiche. Con una ricerca attenta, scevra di preconcetti vittimistici, di ciò che si può e si deve fare perché Napoli recuperi il posto che merita in scale di valori senza dubbio imperfette, ma per quanto la riguarda senza scampo.
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