Lucio Stanca*
Lascia spazio a qualche riflessione la conclusione della lunga vertenza del pubblico impiego. È stato detto giustamente che si è trattato di un accordo necessario, visto il ritardo accumulato, ed equilibrato, tra i buoni miglioramenti retributivi e le importanti aperture su grandi questioni, quali l'efficienza della pubblica amministrazione, la mobilità dei lavoratori e le nuove future regole della contrattazione del settore.
Premetto che in passato sono stato coinvolto in molte negoziazioni aziendali e che questa è stata per me la prima volta in una contrattazione pubblica; possiamo affermare che tutto è bene quel che finisce bene? Direi di sì per i motivi appena detti, ma anche di no per questi tre ordini di ragioni.
1) La pubblica amministrazione può essere considerata di gran lunga la più grande azienda italiana di servizi. Con una caratteristica peculiare: i suoi azionisti, cioè chi la finanzia, e i suoi clienti, ossia chi usufruisce dei suoi servizi, sono gli stessi: gli italiani.
Questa circostanza dovrebbe rafforzare il rispetto degli interessi di questi soggetti. Dallaltra parte ci sono i lavoratori pubblici, gli insiders, rappresentati dai sindacati. In mezzo, il governo, ossia la politica che, per continuare la similitudine con un'azienda privata, può essere assimilato al suo Consiglio di amministrazione.
Cosa avviene di norma in queste occasioni? Accade che parte della politica, cioè alcuni esponenti di partiti, ritiene opportuno essere in modo esplicito più sensibile agli interessi degli insiders, per motivi facili da comprendere, indebolendo così gravemente la posizione nella contrattazione del «datore di lavoro», il governo.
Viene allora a mancare la chiara e netta contrapposizione di interessi, prerequisito indispensabile per ottenere risultati di forte valenza ed efficacia per tutte le parti coinvolte.
2) Tutti d'accordo che occorre recuperare la competitività del nostro Sistema Paese, a partire dalla sua pubblica amministrazione. Almeno a parole. Quando si tratta, però, come in questo caso, di migliorare in modo sostanziale ed in quantità rilevante la sua competitività, le cose si complicano. Perché si tratta, come è successo in questa negoziazione, di discutere come misurare e incentivare produttività e efficienza; di riconoscere e premiare il merito individuale; di come favorire la qualità di un reparto o di un processo operativo; di come assicurare la mobilità dei lavoratori realmente necessaria per le trasformazioni organizzative in atto nella stessa pubblica amministrazione (decentramento, innovazione tecnologica, etc.); di come aggiornare le regole di contrattazione sindacale.
Insomma, sono stati messi sul tavolo i problemi concreti che determinano la competitività di qualsiasi organizzazione, grande o piccola; pubblica o privata. Ed allora si è constatato, sia pure in modo diversificato tra i vari rappresentanti sindacali, come questi temi trovino posizioni di totale chiusura, o ad essere generosi di grande prudenza, con motivazioni che io credo che varino dal timore di riduzione del proprio ruolo fino ad un rigetto addirittura ideologico.
In sostanza, ci sono ancora difficoltà ad affrontare in modo aperto questi temi, che sono di beneficio prima ancora della pubblica amministrazione proprio di chi i sindacati rappresentano, cioè gli insiders.
3) L'ultima osservazione riguarda non tanto la sostanza quanto le apparenze, che hanno sempre un loro valore simbolico.
* Ministro per l'Innovazione e le Tecnologie
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