Politica

Se il rettore gioca a fare il giudice

Tra le nostre istituzioni, l’Università è una delle più gerarchizzate. E non potrebbe essere diversamente per la sua funzione di trasmissione dei saperi e per svolgere la ricerca scientifica. Anzi, se ci fosse maggior rigore nella definizione e nel rispetto delle gerarchie accademiche, se ci fosse maggiore attenzione nel premiare attraverso il merito gli ordini di potere, l’Università vivrebbe in una condizione meno depressa di quella in cui oggi tristemente versa.
Però, è inutile nascondere che queste gerarchie sono spesso strumenti di un esercizio indecente del potere. Ed è anche inutile fare le anime belle, affermando che sono rare le trasgressioni alla deontologia professionale e al buon gusto.
Quanto più l’Università è decaduta in questi ultimi quarant’anni, perdendo il suo prestigio (e anche il rispetto pubblico), tanto più è aumentata la corruzione (sì, vera e propria corruzione finita nelle aule dei tribunali) nel mondo accademico. Il fatto che importanti Università italiane abbiano stilato un «Codice per la prevenzione delle molestie sessuali e morali» rappresenta la punta dell’iceberg di questa decadenza. Se la perdita di fiducia nella moralità dell’istituzione è un sentimento collettivo, il degrado finisce per avere i mille volti della corruzione. E la moralità dell’istituzione universitaria si basa sul rispetto del sapere, sul riconoscimento del merito come principio fondamentale della vita stessa dell’Università.
I concorsi per scegliere i professori sono fatti con regole e mentalità che farebbero inorridire perfino una tribù di selvaggi che deve scegliere i propri capi. Gli esami agli studenti sono pure formalità, perché i finanziamenti arrivano in proporzione al numero degli iscritti, e se si è rigorosi e severi gli studenti emigrano dove non trovano rigore e severità.
Allora quel «Codice» intende sanzionare comportamenti che purtroppo davvero accadono e che sono però il frutto della degenerazione universitaria.
Promesse, ricatti, insinuazioni a sfondo sessuale esistono, spesso diventano monete di scambio per fare carriera o per danneggiare la carriera di altri. Ma quel «Codice» finirà per aggiungere al degrado accademico una barbarie giudiziaria, esercitata senza un vero e legittimo controllo. Come si può giudicare un ammiccamento? Siamo diventati matti? E cosa significa una promessa implicita?
Si può immaginare quale intrigo di ricatti, quali delazioni, quali ignobile messinscena si rischiano di favorire per sputtanare qualcuno che non è gradito a qualcun altro. Quel «Codice per la prevenzione delle molestie sessuali e morali» elenca comportamenti che sono già reati previsti dal Codice penale, e l’Università non deve sostituirsi alla magistratura, non può amministrare una propria giustizia privata.
Per giudicare e sanzionare i reati elencati da quel «Codice» è previsto un «consigliere esterno», preferibilmente donna, che svolge i compiti del giudice istruttore del pubblico ministero, che invia il resoconto della sua indagine al rettore, il quale nel «Comitato Pari Opportunità» decide se «sanzionare» il docente colpevole o «ripudiarlo». Un barbarico delirio giudiziario.
A giustificazione dell’introduzione di questo regolamento interno, si dice che esiste anche nei college inglesi e nei campus americani. Come spesso ci capita, noi copiamo dagli altri il peggio. A parte il fatto che quelle anglosassoni sono organizzazioni accademiche strutturate in modo totalmente diverso dalle nostre università, anche in quelle realtà oggi si tende sempre più a lasciar funzionare la giustizia ordinaria e ad abolire quella di tipo privato, nata all’interno di una tradizione medievale che isolava la vita dei college da quella delle città.
A noi sarebbe sufficiente una buona legge che cambi le Università, che le renda competitive abolendo il valore legale del titolo di studio e che modifichi le regole del reclutamento dei docenti.

Ci sarebbe un’altra moralità e non ci sarebbe bisogno di codici interni, di consiglieri di fiducia, di comitati per le pari opportunità, che sono impietose testimonianze del disastro universitario.

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