Controcultura

Se gli scrittori sentono il richiamo della foresta

Il romanzo-pianta di Powers ha vinto il Pulitzer e torna il capolavoro «boschivo» di Annie Dillard

Eleonora Barbieri

«Immaginiamo che tu sia Dio. Vuoi fare una foresta, qualcosa con cui tenere il suolo, imprigionare energia solare e rilasciare ossigeno. Non sarebbe più semplice abbozzare una lastra di elementi chimici, un ettaro verde di sostanza appiccicosa?». Annie Dillard pone questa domanda, nel suo Pellegrinaggio al Tinker Creek, il libro con cui ha vinto il Pulitzer nel '75 (ora pubblicato da Bompiani, con una nuova traduzione di Gabriella Tonoli, pagg. 352, euro 18), e si dà anche una risposta, anzi la anticipa qualche riga prima: «La complessità, allora, è la nostra questione, la complessità del mondo creato».

La «complessità» e il «mondo creato» hanno anche corteccia, foglie, rami, talvolta frutti, chioma e anzi, per i patiti, la canopea, quello strato superiore in cui vive una quantità inimmaginabile di altre creature e che qualche esploratore avventuroso negli ultimi anni ha eletto a «terreno» (anche se sospeso molto in alto...) di studio scientifico. Forse perché viviamo, solitamente, e in maggioranza, incatenati al cemento, rinchiusi in cubicoli più o meno lussuosi e con aria (ma non solo, ovviamente) condizionata, stipati nel traffico, intravedendo porzioni di cielo dai colori non sempre entusiasmanti e respirando fumi e odori sgradevoli e pure dannosi, gli scrittori hanno rivolto il loro sguardo a quei «tronchi» apparentemente inerti, ma in realtà vivissimi, e indispensabili, che sono gli alberi. Gli alberi sono protagonisti di romanzi e saggi, di indagini e peregrinazioni, e vincono addirittura il premio Pulitzer, come è accaduto quest'anno a Richard Powers, con il suo The Overstory, in italiano Il sussurro del mondo (La nave di Teseo, pagg. 658, euro 22).

Il suo romanzo è arboreo nell'anima e nella struttura, nel contenuto e perfino nel titolo, il quale, come ha spiegato lui stesso in una chiacchierata a fine giugno, quando si trovava a Milano, fa riferimento sia a una «sovrastoria» che connette tutte le altre, come le radici delle piante fra loro e come le piante a tutto il resto del mondo vivente, noi compresi, sia alla parte superiore del fogliame (la canopea, appunto). Sempre in quell'occasione, Powers ha raccontato: «Come mai il premio? Difficile indovinare il motivo. Probabilmente è il libro giusto al momento giusto. Gli alberi vivono un buon momento, dal punto di vista letterario. Per esempio, nella non fiction ricorderà il successo di Peter Wohlleben, con il suo La saggezza degli alberi» (Garzanti). Se sia una moda, magari dovuta all'ecologismo diffuso, Powers non sa dire, anche perché un romanzo come il suo non ne sarebbe scalfito, data la complessità di struttura, linguaggio e contenuto; al massimo potrebbe trarne qualche beneficio in libreria... «Forse è un fenomeno passeggero o, forse, sta cambiando il modo in cui pensiamo la relazione fra umano e non umano», che è uno dei suoi pallini, letterariamente e concettualmente, tanto è vero che, da ex professore della Silicon Valley e ex aspirante scienziato, Powers è appassionato anche di intelligenza artificiale e informatica. Si potrebbe dire che Powers oggi, come Annie Dillard molti anni fa (con la sua saggistica-non saggistica che ha anticipato, per esempio, quella molto contemporanea di Geoff Dyer), ripercorrano il cammino della American Renaissance, quello battuto «da Hawthorne, Melville, Emerson, Thoreau e Whitman, quando l'America iniziò a pensare al modo in cui la civilizzazione portata dall'Europa collidesse con questa nuova civiltà».

Anche Tiziano Fratus, nel suo Giona delle sequoie (Bompiani, pagg. 314, euro 22), a caccia di radici e identità fra le balene della terraferma, da bergamasco fa riferimento a quella generazione letteraria, come base per il suo «Viaggio tra i giganti rossi del Nord America». Può far sorridere che si debba andare così lontano, ma Fratus è un assiduo esploratore di boschi nostrani e, prima di raccontarci numeri, storie e leggende di questi alberi grandiosi, ha battuto i sentieri delle Alpi e degli Appennini, «gli ulivi che circondano Assisi, i querceti che popolano le terre agresti di Arezzo, Spoleto, Narni e Perugia».

Il bosco, l'albero, la foresta, il silenzio, i rumori della natura, il dominio del «mondo creato»: tutto parla di vita da monaco, di eremo. Powers vive, da solo, sulle Great Smoky Mountains. Per Annie Dillard la casa sulle sponde del Tinker Creek («un fiume in una valle delle Blue Ridge, in Virginia») era «un eremo». Quando iniziò la stesura del suo Pellegrinaggio, la scrittrice americana aveva solo 27 anni, aveva letto un libro di un autore amato e aveva trovato «una lunga serie di care vecchie banalità sparse qua e là». E si era detta: «Dio ci salvi dalle meditazioni» e poi aveva pensato: «Non sarebbe una cattiva idea scrivere del mondo prima che mi stanchi di esso». Non c'è spiritualità a buon mercato, non c'è aria di new age dalle sue parti. Chi fosse a caccia di luoghi comuni ambientalisti troverebbe pelli di serpenti annodate, storni presi a pallettate e/o ibernati, insetti crudeli, alluvioni, coltelli con cui squartare, sfumature di luce, fronde sotto cui sostare, osservare, appostarsi, riflettere, annotare.

A una giornalista che le chiese perché parlasse tanto degli eschimesi nel libro, Annie Dillard rispose: «Il paesaggio scarno dell'Artico mi suggeriva l'azione stessa dell'anima che si svuota per prepararsi alle incursioni del divino».

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