Se gli stranieri ci preferiscono "poveri ma belli"

Gli stranieri ci guardano.Masiccome sono miopi oppure strabici, la nostra immagine gli arriva deformata, nel bene come nel male. Prendete quella che è stata la mostra d’arte più applaudita a Parigi nei mesi scorsi, un programma già nel titolo: Voir L’Italie et mourir... Riprendeva una frase di Goethe che a sua volta si rifaceva all’antico detto napoletano «Vedi Napoli e poi muori», nel senso che, fatto il pieno di tanta bellezza si può tranquillamente andare all’altro mondo. Gli stranieri si fermano rapiti di fronte a ciò che aunocchio italiano si rivelavainvece sinistro: un Paese popolato di rovine e dimorti di fame, immerso in una decadenza senza tempo e senza scampo, immobile se non ostile a ogni cambiamento.Eppure, il secolo preso in questione da dipinti e fotografie era quello dell’Unità d’Italia.

Prendete i romanzi gialli ambientati da noi e scritti da forestieri trapiantati in loco, la Venezia dell’americana Donna Leon, la Firenze dell’inglese Magdaleen Nabb, l’Umbria dell’americana Grace Bronhy, la Roma dell’inglese Jan Pears, per citarne solo alcuni. Mettono in scena investigatori pubblici e privati che vivono in dimore patrizie, hanno per compagneocompagni nobildonne e critici d’arte, bevono vino bianco, si dilettano di letteratura latina e greca e di musica classica, e intorno hanno un’Italia che sembra quella dei Borgia, un Paese, insomma, dove la normalità non esiste, se non per gli autori dei romanzi stessi che infatti in Italia hanno messo radici e non hanno alcuna intenzione di tornarsene a casa loro.

Si sa che i cliché sono duri a morire e del resto di fronte alle trattorie che strappano «wonderful» d’ammirazione ai turisti, noi italiani scappiamo a gambe levate, ma c’è qualcosa di più profondo. È come se dall’estero inconsciamente ci rimproverassero di essere divenuti nazione, industrializzata per di più, invece di accontentarci di restare una sorta di giardino d’infanzia dove si veniva a fare il pieno di vita e di cultura, di sesso e di imprevisti.

Per secoli, quando l’Italia era tale di nome ma non di fatto, siamo stati una sorta di alibi e di specchio, una tentazione cui cedere per poi ritrarsene, il parente «povero ma bello» che ci si poteva concedere il lusso di ammirare, guardandosi bene però dall’imitarlo, perché avrebbe portato al disastro. È di questa nostalgia che gli stranieri si nutrono. E la scambiano con la realtà.

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