SE GLI USA VALGONO MENO DELLA ZUPPA

Oggi stipulare un’assicurazione contro il fallimento dello Stato americano costa più di una polizza che ci metta al riparo dal fallimento delle zuppe Campbell o dei panini McDonald’s. Facciamo un esempio concreto. Un investitore che avesse in mano un milione di dollari in titoli del Tesoro Usa potrebbe assicurarsi (attraverso degli strumenti finanziari che si chiamano Credit default swaps) al prezzo di 6600 dollari. Se lo stesso prudente investitore volesse proteggersi dal rischi di vedere andare in fumo un milione di dollari investiti nella ditta Campbell (quella della zuppa e di Warhol per intenderci) dovrebbe sborsare 5300 dollari. Queste polizze si comprano e si vendono liberamente sui mercati finanziari e ogni giorno cambiano di prezzo. Rappresentano, oltre che uno strumento per proteggersi dal rischio, il termometro dell’affidabilità di un emittente. Il mercato oggi si fida più di un’azienda privata che dello Stato americano in cui l’azienda, evidentemente prospera.
Se torniamo a casa nostra si replica il paradosso. Assicurarsi contro il fallimento dello Stato italiano costa, ai prezzi di ieri, circa 19mila euro. Fare altrettanto con una qualsiasi delle nostre grandi banche, ha un prezzo più ragionevole che va dai 12mila di Intesa ai 13mila di Unicredit.
L’ipotesi che Stati Uniti e Italia non paghino i propri debiti è praticamente nulla. Al contrario l’eventualità che un’azienda privata ci regali qualche scherzetto, di questi tempi, non è remota. Il mercato però è preoccupato, anzi preoccupatissimo. Gli Stati si credono Babbo Natale. E stanno facendo a gara (l’Italia in questo scenario ha dimostrato una sobrietà rara) nel concedere aiuti di Stato. L’Obamaeconomics ha già sulla carta impegnato 7mila miliardi di bilancio pubblico e dunque in prospettiva di possibile debito. Il termometro delle nostre polizze finanziarie è quindi salito ai massimi non già per la concreta possibilità che saltino gli Stati sovrani, ma per la direzione che hanno preso i loro bilanci pubblici. Il processo americano è sintomatico: primo un aiutino alle banche, poi il mega Fondo da 700 miliardi e poi ancora 500 miliardi per le infrastrutture e ancora 15 miliardi per le auto. La lista degli interventi annunciati è lunghissima.
In questo senso la ritrosia del Tesoro italiano ad allargare i cordoni della Borsa è un buon segnale. Da un punto di vista di principio: perché gli aiuti di Stato, da queste parti, mitigano il dolore nel breve termine, ma uccidono il paziente nel lungo. E da un punto di vista pratico: perché con il debito pubblico che abbiamo lo Stato italiano non si può permettere grandi allegrie di spesa.
Le risorse per le protezioni sociali (e non aiuti sconsiderati) sono evidentemente necessarie.

Ma la via per rimediarle non può che passare per una riduzione della spesa. Conforta vedere che la Confindustria dopo aver firmato con i sindacati il blocco della riforma pensionistica di Maroni, ieri, per bocca del suo presidente, ci abbia ripensato.

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