Se vivere nella Grande Mela è più sano che in campagna

Se vivere nella Grande Mela è più sano che in campagna

di Franco Battaglia

Veniamo informati che l'attesa di vita - quasi 81 anni - di un newyorkese è superiore di ben 3 anni alla media nazionale americana.
Il sindaco di New York ci ha scherzato su, e ha invitato connazionali e stranieri ad andare a vivere nella Grande Mela: una specie di elisir di lunga vita. Scherzi a parte, e con buona pace dei ragazzi delle vie Gluck del mondo, non solo non fa male vivere in città, ma fa addirittura bene. Personalmente, l'ho sempre sospettato ma, sapete com'è, a esplicitare il proprio pensiero si rischia a volte di passare per bastian contrari. Ora ci sono invece l'autorevole studio e gli stessi fatti che ci confortano: il mito della vita bucolica, sana e salutare è, appunto, niente più che un mito.
Sarebbe interessante apprendere come nascono questi miti. La pletora di sociologi in circolazione saprà certamente soddisfare questa curiosità. Per intanto, viviamo tranquilli e godiamoci i benefici della vita metropolitana. Ma volete mettere? Prendere la metro e andare stasera all'ultima rappresentazione del Marito Ideale? Per forza che chi vive in città viva più a lungo: assistere ad un Oscar Wilde non può non allungare la vita. Per converso, il campagnolo può solo morire dal desiderio di vedere un Oscar Wilde rappresentato dal vivo. Morire, appunto. Ecco di cosa muore prima, il campagnolo: muore di desiderio.
Dove prima c'era l'erba ora c'è una città, si lamentava il ragazzo della via Gluck. E perché l'erba sarebbe meglio? Per giocarci sopra a pieni nudi, ci vien cantato.
Circostanza che sarebbe, secondo quel ragazzo, la prova provata della fortuna di cui il campagnolo è gratificato rispetto al cittadino. V'è un modo sicuro per toccare con mano questa fortuna: la prossima volta che sarete assaliti dalla malaugurata illusione di voler andare a respirare aria pulita in campagna, toglietevi scarpe e calze e fate una corsa sull'erba. Sentirete che fortuna.
E a proposito di aria, che quella di città uccida è una favola cui non crede più nessuno. Perfino gli inguaribili scettici dovrebbero arrendersi all'evidenza dei dati newyorkesi. L'unico che non voglia arrendervisi pare sia il sindaco di Milano che, mi dicono, continua coi suoi anatemi contro l'inesistente pericolo da smog.
Un fesso col botto, allora, il ragazzo della via Gluck? Difficile dirlo. Una cosa è certa (ed è certa perché è così che ci vien cantata): lui dalla campagna se ne è stato rigorosamente lontano.
Certo, piange a starsene lontano, ma sapete come si dice a Napoli: fa' comme a jatta, chiagne, etc. Storia vecchia, se non come il mondo almeno di 2000 anni: Melibeo-Virgilio invidiava, sì, Tìtiro che, recubans sub tegmine fagi, godeva delle bucoliche delizie; ma Virgilio-Virgilio si guardava bene dall'allontanarsi dall'Urbe.
La città, luogo presunto artificiale e per ciò stesso infernale, batte quindi la campagna, luogo presunto naturale e per ciò stesso paradisiaco. Circostanza che dovrebbe indurci a riflettere e possibilmente rivedere i pregiudizi che hanno alimentato la cultura, cosiddetta verde, di cui si è nutrita e ammorbata l'ultima generazione.
Una cultura autolesionista che ha relegato l'uomo a virus del pianeta, il quale, a sua volta, dalla presenza dell'uomo e dalle sue attività deve essere continuamente salvato. Salviamo il pianeta, strillano i bischeri.
La verità è che siamo noi a dover essere salvati dalle insidie della natura. O meglio: siamo noi a dover provvedere alla nostra stessa salvezza da quelle insidie.

La verità è che l'unico prato verde dove si potrebbe veramente e con confidenza correre a pieni nudi è quello che noi stessi avremo saputo artificialmente impiantare nei parchi delle nostre città.
L'unica nostra vera salvezza è smascherare le ipocrisie dei ragazzi delle vie Gluck, sotto qualunque guisa e colore essi si presentino.

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