Controcultura

Un secolo di Grand Hotel da Mussolini a Fellini

Fondato nel 1908, ospita rockstar e intellettuali Imponendo regole. Ma una volta Tondelli...

Luca Beatrice

C'è sempre qualcuno che appiccica il naso alla cancellata nella speranza di riconoscere qualche vip in vacanza, protetto dalle fitte siepi e da bodyguard tanto muscolosi quanto placidi. Curiosità legittima e innocente quella del mondo fuori.

Perché la storia del Grand Hotel di Rimini, a 111 anni dalla sua fondazione, è sempre stata questa, un «porto franco» di discrezione, eleganza, sobrietà che neppure i fan di Vasco Rossi sono riusciti a violare, perché se è vero che il Komandante è un habitué del gigantesco cinque stelle Liberty, nessuno è mai riuscito ad avvicinarlo, neppure a colazione o alle eleganti cene sulla terrazza.

Poi capita che negli stessi giorni Carlos Santana, chitarrista che ha fatto la storia del rock, e lo scrittore Luis Sepúlveda si prendano un caffè insieme e nessuno si avvicini loro.

Qualche sera fa ci ha soggiornato il presidente Mattarella, intervenuto al concerto di Riccardo Muti nel magnifico Teatro Galli da poco restaurato: misure di sicurezza certo, ma senza esagerare perché gli ospiti del Grand Hotel sanno come ci si comporta di fronte alle istituzioni.

Anche la celebrità ha le proprie mode e la moda le sue degenerazioni eppure, per certi versi, al Grand Hotel qualcosa si è come cristallizzato in una specie di non tempo metafisico. E anche le commedie cinematografiche all'italiana se ne sono occupate spesso.

È una meta da ricchi ma non da arricchiti, l'educazione è considerata il valore supremo, certe abitudini si devono mantenere e sono tassativamente vietati i bermuda a cena per i signori uomini.

Se il dj di grido insiste con la mise cafona al motto di «lei non sa chi sono io», il direttore resterà fermo nel chiedergli con cortesia di cambiarsi, che certo la trap non può cambiare uno stile secolare, quando fuori c'è il mondo dove tutto è possibile e dove la trasgressione è un marchio di fabbrica, accontentati di questo.

Qui no, ha già suonato come rivoluzionario disobbligare la camicia, vanno bene Lacoste, Moncler, Fred Perry bianche-blu-rosse, colori del mare e dei golf club, le t-shirt stampate meglio limitarle alla spiaggia, peraltro di un'eleganza che rimanda alla tradizione dei «bagni di mare» all'inglese, arrivati sulla riviera romagnola intorno al 1870, ben prima che inaugurasse il Grand Hotel nel 1908.

L'anno prossimo, nel 2020, sarà un secolo di Federico Fellini. Rimini aprirà un nuovo museo in varie location del centro, dedicato a uno dei nostri più famosi registi che resta un brand di italianità nel mondo, anche se sono passati oltre venticinque anni dalla sua scomparsa.

Dire Fellini è dire Grand Hotel, è dire Amarcord, nonostante gli ambienti siano stati ricostruiti, come di consueto, a Cinecittà. «Il Grand Hotel deve molto a Fellini, ma anche Fellini deve molto al Grand Hotel», dice con malcelato orgoglio Fabio Angelini, direttore dal 2013, poco prima della scomparsa del patron Antonio Batani che ha lasciato il timone alla figlia Paola. Le foto del Maestro insieme a Giulietta Masina, alcune tavole del Libro dei sogni, le melodie di Nino Rota che gli orchestrali immancabilmente eseguono nella calde sere sulla terrazza, dove tutto può avere sapore vintage tranne la cucina, non hanno però trasformato lo spazio in un mausoleo perché c'è una storia prima e una storia dopo, nonostante Fellini del Grand Hotel sia stato il testimonial per eccellenza.

Inaugurato nel luglio 1908, disegnato e progettato dall'architetto svizzero-uruguagio Paolito Somazzi in pieno stile Liberty internazionale, il Grand Hotel ha attraversato la storia del 900 e i primi anni del nuovo secolo tra ascese e declino, ospitando principi e capi di stato, intellettuali e bellezze, famiglie fidelizzate che mai rinuncerebbero a una settimana di vacanza e coppie di amanti (si dice che Claretta Petacci sospirasse al balcone vedendo passare l'aereo del Duce che stava facendo ritorno a casa). Non una meta qualsiasi ma un senso di destinazione, è atterrare in un microcosmo, un mondo perfetto vestito di bianco.

Per paradosso, si potrebbe anche non uscire mai. Anche se Rimini negli ultimi anni è profondamente cambiata, da meta balneare a città sul mare divisa in due dalla ferrovia, con un centro storico pulsante di locali, gallerie, ristoranti di ricerca e piadine gustose, senza contare i chilometri di costa dove il casino è d'obbligo.

Qualità della vita eccellente, vivacità culturale anche, Enrico Brizzi ci vive ormai da diversi anni quando non gira a piedi o in bici e vi ha ambientato il suo primo romanzo giallo Gli amici di una vita, che parte proprio dall'omicidio di uno che soggiornava al Grand Hotel.

Nella realtà, violato forse solo una volta, nel luglio 1985 quando Pier Vittorio Tondelli e la Bompiani lo scelsero per la presentazione di Rimini.

Orgia, baccanale, gay party, eccessi di ogni genere, la storia alternativa lo ricorda come un momento fondamentale di trasgressione, la verginità venne persa e la stampa di allora gridò allo sbarco dei lanzichenecchi.

Tondelli non c'è più, ma se molti degli invitati di quella sera tornassero oggi verrebbero accolti con la consueta gentilezza.

Al Grand Hotel, dal 1908, trovi tutto tranne che popolo. Un'esperienza d'élite senza ostentare il lusso. Come stare in crociera ma senza il tragico obbligo della condivisione dello spazio con chi mai vorresti incontrare.

Adori il particolare fané, la colonna sonora d'antant, i sorrisi a mezze labbra.

Poi dopo mezzanotte esci perché c'è ancora lui, il mondo fuori, la vita vera, e non è detto sia la migliore.

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