Il selvaggio West è una commedia se lo racconta Percival Everett

«H o chiesto al cielo: non c’è più niente di sacro? E il vasto, impietoso cielo del West ha fatto un gran sorriso e non ha detto niente».
Questa è la prima reazione - un po’ pascaliana - di Curt Marder, mentre guarda il fumo levarsi verso l’alto dopo che degli indiani (o dei banditi travestiti da indiani?) gli hanno incendiato il ranch, rapito la moglie e ucciso il cane. Ma subito Curt - siamo nel West, mica all’asilo - si rimette a cavallo, un cavallo lumaca, donchisciottesco, da perdenti affermati, e va in paese a cercare aiuto. O meglio a farsi un goccetto al saloon.
Sornione, ironico Percival Everett. Nel suo Il paese di Dio (Nutrimenti, pagg. 200, euro 16) non salva neanche uno dei personaggi da quella che per lui - e ormai lo sta dimostrando da trenta titoli - è una necessità assoluta: divertirsi, o meglio sorridere, mentre si scrive.
La trama western prosegue lineare e comica. «Ti hanno fatto fuori anche il cane?» chiede il barman coi capelli rossi a Curt. «“Sì, con questa freccia qui”. Ho alzato quello strumento di morte e gliel’ho mostrato. “Il cane era infilzato qui, ma me lo sono perso per strada”. Il barman ha scosso la testa. “Ma che razza di selvaggi girano dalle nostre parti?”. “Selvaggi efficienti”».
E via così, fino al the end. Tanto che, ben presto, al lettore di questa avventura allegra, cerebrale e parodica, tutta scritta in cinemascope, non importa più se Curt riuscirà a vendicarsi, a ritrovare la sua «donna bianca», a non farsi fagocitare da Bubba («Un braccatore nero. Il miglior segugio di tutto il circondario. Una leggenda. Un negro»), cioè dal singolare e responsabile Sancho Panza che Everett gli mette accanto, oppure dall’inqualificabile predicatore Simon Phrensie («Io sono un uomo di chiesa, di Dio, e soprattutto vendo Bibbie. Bibbie bellissime praticamente intonse e con quasi tutte le pagine. Ditemi, avete bisogno di una copia del libro sacro? La parola dell’Onnipotente pesa così poco ma significa così tanto...»). Il finale, come da tradizione western, potrà essere solo «sospeso», con il cowboy che, dopo l’ultima rude e orgogliosa battuta, si allontana da solo nel paesaggio.
Ma non è per necessità di una simile scontata conclusione che lo stile di Everett prevale giocoso sulla trama: piuttosto è nella natura intima dello scrittore che ciò avvenga. Si vive in questo romanzo fin tanto che si sente (o si immagina) l’odore di cuoio della sella e il sole del West battere sulla testa e sull’orizzonte polveroso. Fin tanto che se ne subisce il fascino. Poco importa se, antropologicamente, la scena romanzesca appaia un po’ troppo en travesti, perché per Il paese di Dio vale innanzitutto il paradigma Nabokov: lasciate che il piacere dello stile e dell’intelligenza vi salga lungo la spina dorsale, il resto è postmoderno trascurabile che solo i recensori intercetteranno. Non bastasse, ribadiamo, è uno dei libri più spassosi usciti quest’anno in Italia.
Tuttavia sarebbe scorretto ridurre Il paese di Dio a intrattenimento letterario di qualità.

Tra le righe Everett - nero afroamericano ex rancher, ex domatore di cavalli, ex professore di liceo, ex chitarrista jazz - lascia che si infiltri la «sua» morale: una meditazione irrisolta, irrisolvibile, sui rapporti sociali tra bianchi e neri.

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