Esiste un rumore di fondo dell'epoca? Un grigiore che possiamo considerare il grado zero della nostra esistenza? Un'intimità così sfacciatamente esibita, da essere corrosa proprio nel contenuto individuale che vorrebbe mostrare? Un anonimato liquido, pervasivo, irredimibile?
Per riuscire a leggere il nuovo libro di Davide Bregola, La cultura enciclopedica dell'autodidatta (Sironi, pagg. 236, euro 14.50) dovremmo proprio sintonizzarci su questo afono rumore di fondo, inzupparci nel ventre della provincia, tra vite non illustri, antieroiche, banali. Immergerci tra le ceneri di un romanzo e nemmeno forse di un romanzo, ma piuttosto di una fiction televisiva.
Ecco: siamo in una fiction televisiva e togliamo le luci, i sorrisi, i volti belli e sicuri, la pubblicità. Togliamo anche la storia e guardiamo le scenografie dall'interno. Non possiamo permetterci il lusso di seguire una vicenda, di appassionarci per una scelta: dobbiamo invece indugiare sul calderone, la materia prima, il magma da cui la storia nasce. Come dicevo, non siamo nel campo del romanzo, siamo nel rumore di fondo, nel tono dimesso della provincia che urla una sua speciale forma di ribellione. La cultura enciclopedica dell'autodidatta sembra proprio l'accatastamento scomposto del materiale da cui nascono le storie, il racconto senza struttura di una storia che potrebbe esserci, l'accanimento terapeutico su un oggetto (la scrittura romanzesca) col quale, palesemente, non si vuole avere nulla a che fare.
Mentre seguiamo, senza alcun filo riconoscibile, la vita del personaggio principale, Giovanni Costa, e della sua fidanzata Maura, e li vediamo arrabattarsi fra i pochi soldi e le umiliazioni, i lavori precari e gli studi abbandonati o allungati a dismisura, i malanni dei genitori e le discussioni filosofiche sul nuovo ordine mondiale, mentre li osserviamo interrogarsi su cosa è la verità, oppure perdersi in dichiarazioni altisonanti ma spesso banali, siamo costretti a trovarci tra le quinte del testo, nello spazio vietato che di solito viene ricostruito dalle abilità dei critici, siamo costretti a guardare un personaggio prima che sia veramente un personaggio.
Giovanni Costa vive in quella fase del lavoro di scrittura in cui tutto è possibile, nulla viene eliminato, non c'è censura e la struttura narrativa non presenta il conto di ciò che è appropriato e di ciò che non lo è. Di ciò che è vero e di ciò che non lo è (nell'unica verità possibile per un romanzo, quella del testo). Siamo, come dicevo, nel campo del materiale grezzo, del rumore di fondo, dell'anonimato.
Allora la domanda è questa: perché scrivere un libro senza sgrezzare la materia, perché mostrarci un personaggio colto sulla soglia della sua esistenza come personaggio? Credo che sia una domanda importante visto che, contemporaneamente all'uscita della Cultura enciclopedica dell'autodidatta, Bregola ha reso disponibile sul suo blog nel sito www.vibrissebollettino.com l'inchiesta da lui condotta sul Grande romanzo italiano del XXI secolo.
Il che vuol dire che lautore da una parte ha un grande interesse per il tema del romanzo, e dall'altra che la sua scrittura in parte nasce anche dall'esperienza diaristica del blog.
La risposta credo che sia questa: perché l'autore, molto semplicemente, non poteva altro. Voleva rappresentare la propria vita, o quella che, per pudore (chi scrive non può mai dire tutto), è ciò che sulla pagina si avvicina di più alla sua vita. E la nostra vita, oggi, è spesso antieroica, è spesso conforme al grigiore, al Bloom (come lo ha definito il gruppo di filosofi denominato Tiqqun) dell'esistenza. In un'epoca di moltitudine e di precariato, quello che resta dell'eroe antico è questo affastellarsi di buoni propositi, di banalità quotidiane, di frasi rubate dai media e di ribellioni senza ideologia. La sessualità è asessuata e l'esperienza espropriata. Ciò che è intimo è così diffuso da perdersi nella frequenza, da desoggettivarsi.
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