All’annuncio della morte di Mario Monicelli segue quello che nessun funerale avrà luogo per il grande regista: né in forma religiosa né in forma laica. Questo fatto, per niente inatteso, è come l’ultimo fotogramma non tanto della vita di Monicelli - che a mio parere merita ogni felicità ultraterrena non solo per i suoi eccellenti film ma per aver concepito tutta la sua vitad’artista nel segno di un’eccezionale generosità creativa - ma del mondo di cui Monicelli fu l’interprete.
La non celebrazione del rito funebre contiene una notevole quantità di retorica. La trovo una scelta decisamente altisonante. La riduzione dell’uomo alla sua opera visibile, la volontà di cancellare quell’eccedenza, rispetto all’opera, che è o fu il nostro corpo, non può essere operata senza pagare un pedaggio alla finzione. I riti funebri infatti, nella loro modestia o nel loro sfarzo, raccontano una storia di poveri corpi: poveri anche se in vita produssero la Divina Commedia o la Gioconda .
Ma la radice del mistero dell’uomo, fin dalla nascita, sta in quei corpi, in quella povertà. In un paese come l’Italia che, vuoi per la sua lunghezza vuoi per la sua storia accidentata, non ha mai avuto (tranne Dante) un interprete universale, la chiave per la conoscenza sta nello studio dei diversi caratteri che la compongono. Ogni terra, città, contrada d’Italia presenta caratteri umani autoctoni, da considerare uno per uno. Monicelli è stato un importantissimo interprete di questa pluralità di caratteri, soprattutto per quello che riguarda la sua area geografica di competenza, quella parte cioè dell’Italia peninsulare che va dalla Toscana a Napoli, con epicentro Roma. Chi è nato e vissuto in quella parte del nostro paese può capire Monicelli e la sua opera, soprattutto comica, meglio di altri, perché meglio conosce i caratteri rappresentati.
Se Amici miei non è stato il capolavoro di Monicelli, è però il film che meglio di ogni altro ha rappresentato le maschere di quel mondo, che come i loro antenati (a cominciare da Boccaccio fino al Fucini e al Collodi) esprimono attraverso messinscene, burle colossali e scherzi feroci la loro determinazione a esorcizzare, tenendola in scacco, la Morte. La burla è un meccanismo, un dispositivo di allontanamento, che in Amici miei si esplicita fino a comprendere nella narrazione diversi riti funebri. L’opera di Monicelli ruota tutta intorno al tema del rifiuto della Morte, la cui vittoria - inevitabile alla fine sarà più amara che mai, proprio perché si impadronisce di uomini che non l’hanno voluta affrontare. Uomini così non appartengono solo all’universo poetico di Monicelli, esistono veramente, e le loro biografie presentano tratti comuni: una gioventù spensierata, una maturità allegra e spiritosa, una vecchiaia che scolora dall’ironia al sarcasmo fino alla tetra cupaggine.
Non so se lo stesso artista avesse tratti comuni con queste maschere della sua grande commedia. Verrebbe da dire di sì. Domina nelle sue storie questo gioco al rinvio, al non-incontro con l’ossuta nemica. La scelta di non celebrare il funerale appare conseguente a questa posizione. Una volta morti, finiamo nel Nulla, non esistiamo più, e questo è tutto.
Anche se l’amarezza che domina un uomo a questo pensiero dovrebbe forse suggerirgli che perlomeno il suo desiderio naturale possiede la forza di slanciarsi oltre quel muro. C’è qualcosa in noi che grida: non può essere solo così! E continua a gridare, anche se continuiamo a ripeterci che sono tutte sciocchezze.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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