Quella di Cogne pare un viso spento, le finestre due occhi che scrutano accigliati chiunque cerchi di cogliere nella casa tracce dell’orrore di cui è stata testimone. Lo chalet dei Franzoni è l’unifamiliare del delitto per eccellenza, ma non è un’eccezione. Anzi. A mettere in fila tutte le «villette di» si scopre un'inquietante costante architettonica nei più atroci omicidi in famiglia degli ultimi anni: la villetta di Garlasco, quella di Novi Ligure, villetta pure il luogo dove Pietro Maso trucidò i genitori. Una sequenza che arriva fino all'ultima, la casetta con il tristemente noto garage di Avetrana.
Dicono che nascondeva un clima di violenza pure l'ordinato villino sulle colline umbre di Barbara Cicioni, la donna che il marito avrebbe ucciso in camera da letto, il 24 maggio 2007, senza un rimorso per il figlio che portava in grembo. E Chiara Poggi aveva aperto all'assassino la porta del suo nido sicuro, un villino circondato dal verde, e lui la ricambiò colpendola e trascinandola lungo le scale che conducevano alla taverna. Sangue negli ambienti dedicati allo svago e al riposo, come il lettone di mamma e papà dove dormiva ignaro il bimbo Samuele Franzoni. O la vasca da bagno dove Erika e Omar hanno tentato di annegare il piccolo Gianluca, per poi finirlo a coltellate. Il giorno prima ci sguazzava dentro con le paperelle e le bolle di sapone, il giorno dopo lo tenevano a forza con la testa sott'acqua. Così quella villetta a schiera, con i muri colorati di un rosa tenero e una siepe di bosso potata alla perfezione, si è trasformata in un mattatoio.
Come per una beffa atroce, il più borghese dei sogni immobiliari si è trasformato nello scenario preferito dei nostri peggiori incubi. Una gabbia dove gli ordinari rancori familiari si tramutano in lacci stretti intorno al collo, inseguimenti con il coltello imporporato di sangue, corpi trascinati sul pavimento in cotto naturale, truculenti piani covati mentre papà guarda la partita e l’impianto home theatre copre pure il rumore dei pensieri. Chissà se è per cambiare natura a quegli interni con delitto, per cancellarne l'impronta, che gli acquirenti della casa che fu della famiglia di Pietro Maso, hanno diviso la villetta in due appartamenti, trasformandola in un, sia pur minimo, condominio.
Il punto è che nell'alveare dei palazzoni si può individuare la minaccia all’esterno, localizzare l’avversario oltre la soglia del proprio rassicurante regno, si può puntare il dito contro il vicino di casa rumoroso, l'amministratore di condominio insistente o la portinaia che s’impiccia sempre e non ci porta il rispetto che meritiamo. Il risultato è che in casa ci si coalizza contro il nemico della porta accanto, tattica che da sempre consolida l'autorità del capo e sopisce i malumori interni.
Ma per i fortunati che coronano il sogno di approdare all'ambita unifamiliare cambia tutto. Quanti sognano di sostituire lo stormir di fronde di un giardinetto a Casalpalocco al caos di Roma, il fruscìo del naviglio di Cernusco allo scorrere del traffico di Milano. E una volta che il vallo è costruito, i barbari allontanati dall'uscio, confinati oltre la siepe, nel silenzio delle villette si resta soli con la propria famiglia. Finalmente. O no? E non c’è bisogno di ricorrere all'iperbole della sociologa Chiara Saraceno («oggi la famiglia è il luogo più pericoloso»), anzi sarebbe pure ardito collegare la forma architettonica all'inclinazione criminale, come fosse un teorema. Eppure qualcosa vorrà dire quella serie di ville e delitti.
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