Sette anni per cambiare le tlc in Italia

Due strade: vendere il gruppo o scommettere sulla televisione

Si chiude domani un’epoca per Telecom Italia. Quando il 21 maggio del 1999 Roberto Colaninno, Emilio Gnutti e la «razza padana» soffiarono il gigante delle tlc a Franco Bernabè sostenuto da un nocciolo molle di azionisti capitanati dagli Agnelli, pagarono il gruppo 50 miliardi di euro, di cui gran parte a debito. Oggi Telecom, che nel frattempo è passata all’accoppiata Tronchetti-Benetton e si è inglobata Tim, viaggia in borsa sui 30 miliardi. E il debito è sempre lì a quota 40. Una situazione insostenibile. Tronchetti aveva davanti a sé due opzioni: vendere in perdita ciò che aveva pagato 4,2 euro o cambiare completamente strategia. Ha scelto questa seconda strada: Telecom, ci si passi la semplificazione, diventa televisione. A costo di smentire un anno di chiacchiere sulla convergenza tra telefonia fissa e mobile, chili di slides sui risparmi di costi, e financo una razionalizzazione societaria che ha fatto scomparire Tim. Si cambia tutto. Tim, la gallina dalle uova d’ora che fattura 12 e ha margini per 6 miliardi, è invecchiata ed è for sale. La rete, che protegge ogni buon monopolista, viene conferita a una società pronta all’occorrenza per essere ceduta.

Quel che resta sono 25 milioni di clienti a cui arriva il doppino telefonico in casa e a cui vendere televisione di ultima generazione. È l’ultima sfida di Tronchetti. In Pirelli ha saputo risanare gli pneumatici, in Telecom non è riuscito a riassorbire il debito, con la nuova Telecom si giocherà la partita della «media company».

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