Seul, Tokyo e Washington studiano l’incognita

di Livio Caputo

Da Washington a Seul, da Tokyo a Pechino è allarme rosso. Il mistero che circonda tutto ciò che avviene a Pyongyang è tale, che nessuno si azzarda a fare previsioni sulle conseguenze della scomparsa di Kim Jong-il. Si prende atto che il Partito dei lavoratori e i vertici delle forze armate hanno subito accettato come nuovo leader l’erede designato, il ventottenne terzogenito Kim Jong-un, con un comunicato che invita il popolo a sostenerlo. Ma ci si domanda anche se il giovanotto, salito alla ribalta appena due anni fa con la nomina a generale e membro del Comitato centrale del partito, avrà la capacità di esercitare effettivamente il potere o sarà solo una marionetta nelle mani di un establishment militare che in parte risale addirittura ai tempi di suo nonno Kim Il-Sung, il fondatore della dinastia.
Per quanto la propaganda ufficiale lo abbia già definito «il grande erede della rivoluzione» e «l’eminente leader delle forze armate e del popolo», c’è ragione di dubitare che egli abbia avuto il tempo di acquisire l’esperienza e l’autorità per prendere in mano la situazione. Il timore più diffuso nelle varie capitali è che a Pyongyang si scateni una lotta per il potere che destabilizzi il Paese, e induca l’una o l’altra fazione a fare un colpo di testa per affermare la propria supremazia: un attacco alla Corea del Sud, un nuovo lancio dimostrativo di missili sul Pacifico, un terzo esperimento nucleare dopo i due del 2006 e del 2009 con cui Kim Jong-Il sfidò il mondo. L’arsenale atomico nordcoreano consiste in due o tre testate pronte per il lancio (e un’ampia disponibilità di vettori) e materiale fissile per fabbricarne altre otto.
Un po’ cinicamente, la comunità internazionale si augura che la successione avvenga in maniera non traumatica, anche a costo di un consolidamento dell’ultimo regime stalinista del mondo e di altri anni di sofferenze per i nordcoreani. Per Obama, che ha appena rinnovato l’impegno americano nell’area del Pacifico, è essenziale evitare una crisi. Per la Cina, unica alleata della Corea del Nord, un periodo di turbolenza o un collasso del regime produrrebbe una gigantesca ondata di profughi alla sua frontiera. Per la Corea del Sud, che anche negli anni scorsi ha subito periodici attacchi dei nordisti, una destabilizzazione comporterebbe addirittura la possibilità di una ripresa del conflitto di 60 anni fa.

Se mai, ci si augura che il giovane Kim, che finora non ha incontrato un solo leader straniero ed è un enigma per tutti, adotti gradualmente una politica più duttile, accetti di riprendere i negoziati per un eventuale disarmo nucleare in cambio di massicci aiuti economici e renda il suo Paese meno isolato e paranoico di quanto sia stato finora.

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