Una società che, tra frivolezze e libertinaggio, scivola inesorabilmente verso la rivoluzione francese, l'avvento dell'Illuminismo, la querelle sul teatro: forma didattica o puro divertimento? È il quadro storico in cui andò in scena nel 1784, dopo i tre anni di censura di Luigi XVI, Le nozze di Figaro di Pierre-Augustin de Beaumarchais, al Teatro della Corte fino a domenica 21, con Tullio Solenghi nei panni del protagonista nella messinscena brillante di Matteo Tarasco. Una figura consacrata da Mozart, quella del servo astuto e ribelle alle convenzioni sociali, che fece esclamare a Danton, uno dei padri della rivoluzione: «Figaro ha ucciso la nobiltà».
Equivoci, scambi di persona, dialoghi salaci, satira dei costumi e fughe rocambolesche: insomma, un'opera antesignana del vaudeville. La portata rivoluzionaria del testo non è però nei tipi comici rappresentati, già collaudati dalla Commedia dell'Arte, ma nella coscienza di classe dei nascenti Terzo e Quarto Stato: «Ma che cosa avete fatto voi nella vita per meritarvi tanta fortuna? Vi siete dato soltanto la pena di nascere e basta! E avete trovato tutto pronto e apparecchiato! Mentre io mi son fatto da me!» esplode Figaro, a cui il Conte d'Almaviva (Roberto Alinghieri) insidia l'amata Susanna (Silvia Salvatori). La giustizia camuffata sotto i panni di un giudice dal nome programmatico di Imbrigliapoveri, la disincantata consapevolezza che in politica conta «valer poco e leccar molto»: elementi sediziosi che Beaumarchais attutì abilmente con espedienti comici di sicuro effetto. Si ride così di Marcellina (Sandra Cavallini), attempata zitella all'inseguimento di un marito armata di valigia e di Figaro nascosto sotto il suo letto nuziale mentre il conte seduce la contessa Rosina (Alessandra Schiavoni) travestita da Susanna.
Levità e sfarzo si combinano nelle scene e nei costumi di Andrea Viotti, d'esuberanza barocca reinventata più che ricostruita con puntiglio storico: proliferano oro, stucchi e abiti sgargianti, boccoli di garza coronano le teste e si intrecciano con un elegante trealberi sul capo dell'errante Marcellina, mentre le bilance della giustizia penzolano, dimenticate, dalla testa del giudice. Le maschere da commedia lasciano, a tratti, trapelare l'essere umano: Tullio Solenghi sa dare spessore all'angoscia notturna che opprime la proverbiale allegria di Figaro, non ancora sposato ma già cornuto. Affiorano cenni di protofemminismo nell'amara apostrofe di Marcellina contro una società maschilista che corrompe la donna per trastullarsi e poi la condanna. Il lieto fine appiana tutto; ed è qui che la regia devia dall'originale, cogliendo i suggerimenti scenici della vivace traduzione di Enrico Groppali. Il ballo del finale sfuma sulle note della Marsigliese, cala una ghigliottina rossa di sangue: Solenghi ritorna in scena, conferma che la rivoluzione ha spazzato via l'aristocrazia ma che «il Quarto Stato, come al solito, è rimasto fregato», assicura che Figaro sopravviverà alle vicissitudini della storia.
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