La sfera di cristallo con la Madonnina

di Luca Fazzo

C'era una volta un giudice.
Era un giudice così vecchio, ma così vecchio, che nessuno si ricordava di quando avesse cominciato a fare il giudice. Gli altri giudici della sua generazione, quelli che erano stati ragazzi assieme a lui, erano tutti morti. Alcuni avevano fatto una luminosa carriera, giudicato cause e processi importanti, magari anche scritto qualche libro. Poi erano morti anche loro e il loro ricordo si era perso rapidamente.
Il giudice aveva continuato a lavorare perché nessuno gli aveva mai detto di andare in pensione. A volte se ne domandava il perché, immaginava che qualche aggeggio elettronico nei computer del ministero fosse andato in tilt e semplicemente il suo nome fosse uscito dal programma che gestiva i pensionamenti. Probabilmente lo stesso programma gestiva anche gli scatti di carriera, perché ormai da molti anni il suo stipendio non aumentava più. Ma al giudice non importava, perché era di abitudini semplici, e non riusciva mai a spendere per intero la somma che mensilmente il governo accreditava sul suo conto corrente.
LA STANZA NEI SOTTERRANEI
Il giudice aveva una stanza nei sotterranei del tribunale. La stanza era così umida da essersi ricoperta nel corso degli anni di una vegetazione che - prima timidamente, poi in modo sempre più vigoroso - aveva invaso i mobili, le pareti, la figura stessa del giudice. Era un omino da pochi chili, ma i muschi, i licheni, il fogliame che lo avviluppavano rendevano la sua figura quasi imponente. Lui non usciva mai dalla sua stanza, perché il suo lavoro era l'unica cosa che gli importasse, ed era così convinto della importanza della legge che non gli interessava vedere cosa accadesse al di fuori. Della città sapeva soltanto quel che intravedeva dal lucernario della sua stanza, affacciato sul marciapiede a lato del grande palazzo di giustizia. Vedeva passare i piedi delle persone, e dal mutare della foggia delle scarpe intuiva il mutare delle stagioni, delle mode, degli anni.
Le cause venivano portate nella sua stanza da due commessi incurvati dal mal di schiena, che spingevano fin davanti al giudice un enorme carrello cigolante sul quale stava un solo, sottile fascicolo. Molti anni prima il giudice si era chiesto perché mai servisse un carrello così grosso per fascicoli così piccoli. Poi si era chiesto perché ogni giorno gli venisse portato un solo fascicolo, quando lui avrebbe potuto giudicare ogni giorno dieci cause, forse addirittura venti. «È sempre stato così», gli avevano risposto i colleghi più anziani, e lui aveva smesso di chiedere.
Il carrello arrivava ogni mattina alle otto e trenta. Il giudice apriva il fascicolo, lo studiava con attenzione, se necessario andava a rileggersi qualche legge: accadeva di rado, perché le conosceva quasi tutte a memoria. Alle nove arrivano le parti.
LA DONNINA E IL MOSTRO
Un giorno il giudice dovette giudicare una causa tra una donnina e il mostro orrendo che si era installato nel cortile della sua casa. Era la casa dove la donna era nata, e il mostro vi faceva i suoi comodi. Era una specie di piovra con i tentacoli che, quando li allungava, arrivavano fino al tetto del palazzo. Il mostro ne approfittava per strappare le tegole - le tegole di una volta, che erano lì dai tempi che la donnina era ragazza e portava le gonne colorate - e le lanciava contro i vetri. Oppure vomitava - un vomito ribollente e viscido - sulle file di petunie che la donna coltivava con fatica per rendere più bello il suo cortile. La vecchina venne in udienza tutta vestita di nero, perché di recente il marito le era morto di crepacuore. Invece il mostro mandò il suo avvocato, un giovane pallido e magro. Il giudice sapeva che qualunque sentenza avesse emesso, sarebbe stata carta straccia. Ma applicò il codice con pignoleria, condannò il mostro a versare un piccolo risarcimento alla donna e gli ordinò di cessare immediatamente dal suo comportamento, a pena di ulteriori sanzioni. L'avvocato magro sorrise, e la vecchina si fece ancora un po' più piccola.
LA MADONNA DORATA
Quando furono usciti, il giudice tornò alla scrivania e ne estrasse una piccola sfera di cristallo resa opaca dal tempo, con all'interno la neve e la grande chiesa della sua città, tutta irta di guglie, con una Madonna dorata sulla cima. Vi alitò sopra, la pulì con un fazzoletto, e la poggiò sugli atti di causa. Nel cortile della casa, il mostro che stava ingollando delle birre sentì come un rumore di tormenta venire dal tombino. Poi il rumore divenne un tornado che risucchiò come un aspirapolvere il mostro nelle fogne, e non si seppe mai più nulla di lui. Il giudice, nella sua stanza, rimise la boccia a posto su uno scaffale.
Un'altra volta il giudice dovette processare un maialino rosa e paffuto, che campava vendendo fiori pieni di spine. I giovani della città compravano i fiori a causa del loro profumo ma quando le spine li pungevano si ammalavano e morivano. Il giudice inflisse la pena più alta, il maialino sorrise e annunciò che avrebbe fatto appello. Avrebbe vinto, perché c'era un giudice d'appello che aveva la mania dei fiori con le spine. Appena il maiale e il suo avvocato furono usciti, il giudice strofinò la sfera, e nello stesso momento il maiale fu caricato su un camion che passava sul corso. Prima di sera era già trasformato in salami e prosciutti.
LA RAGAZZA E IL CANGURO
Un'altra volta ancora portarono davanti al giudice una giovane ragazza e il canguro che le aveva rubato il fazzoletto. Era un piccolo fazzoletto rosso che la ragazza possedeva dalla nascita. Il canguro portò dei testimoni i quali raccontarono che era stata la ragazza a inseguirlo e lanciargli il fazzoletto rosso, e lui non aveva fatto altro che raccoglierlo. Il giudice assolse il canguro. Finita l'udienza, appoggiò la sfera sul fascicolo. Prima di sera, il canguro era morto.
Un giorno alle otto e mezza il grande carrello entrò cigolando nella stanza, spinto dai commessi sempre più curvi. Sopra c'era un fascicolo ancora più sottile del solito.
LA PRINCIPESSA E IL POVERO
Quando il giudice lo aprì scoprì che dentro c'era un solo foglio. La Principessa Boccarosa - diceva - è accusata di essersi fidanzata con un povero. Il giudice, che ormai con gli anni era diventato immenso e verde, si grattò la testa. Da quando esiste una legge che proibisce ad una principessa di innamorarsi di un povero? Controllò uno per uno tutti i volumi sugli scaffali senza trovare nulla. Si collegò al computer e non trovò nulla. Allora alzò il telefono e chiamò l'unico amico che aveva nel palazzo. Era un giudice ancora più vecchio di lui, che aveva l’ufficio nella soffitta sopra il quinto piano, una stanza buia e piena di ragni. Le ragnatele avevano coperto per intero anche il giudice. La legge esiste davvero, gli disse. «E' stata pubblicata l'altro ieri, in piccolo, sull'ultima pagina del Grande Quotidiano, sotto le previsioni del tempo».
Il giudice andò allo scaffale dove teneva i giornali che ogni mattina gli venivano recapitati in ufficio, e che lui senza aprirli conservava in pile alte e ordinate. La legge era lì.
La Principessa venne portata in catene davanti al giudice. Era legata e imbavagliata, il vestito sdrucito e strappato. Righe nere di lacrime le scendevano sulla faccia. Il giudice, come prevedeva la legge, la condannò a centomila frustate. «La ragazza non potrà sopravvivere», disse l'avvocato. «Questa è la legge», rispose il giudice.
IL CAPPOTTO APPESO ALLA PORTA
Quando la Principessa ebbe lasciato la stanza, il giudice indossò il cappotto che da secoli teneva appeso alla porta. Prese la sfera di cristallo, la avvolse in una sciarpa e se la infilò in tasca. Percorse i lunghi corridoi, trascinandosi dietro le liane e i licheni che lo ricoprivano. Incontrò il Procuratore della Repubblica, un gattopardo grasso e cieco da un occhio che lo salutò con deferenza. Incontrò il presidente degli avvocati, un tricheco che da anni si nutriva solo della frutta mezza marcia che cadeva al suolo da un paio di alberi nel cortile del palazzo. Anche il tricheco salutò compitamente il vecchio giudice coperto di muschio. Attraverso i corridoi sterminati e affollati raggiunse una scaletta piccola piccola, che nessuno usava mai e di cui anche le signore delle pulizie avevano dimenticata l'esistenza. Salì, salì, e arrivò nella stanza del giudice coperto di ragnatele.
«Anche oggi ho applicato una legge che non condividevo», disse.
«Accade spesso anche a me» rispose l'amico. «È il nostro mestiere».
«Eh sì. Ma devo confessarti una cosa. Quando prendo una decisione ingiusta, poi cerco di rimediare in qualche modo». Srotolò la sciarpa e mise sulla scrivania la sfera di cristallo. «Adesso ti spiego come funziona».
LE DUE SFERE DI CRISTALLO
«Immagino più o meno come questa» disse l'altro giudice mettendo sulla scrivania una sfera che teneva anche lui nel cassetto.
I due vecchi si guardarono in silenzio.
«Ma oggi come faccio? Qui non c'è un torto da aggiustare o un cattivo da punire. C'è solo una legge sbagliata. Posso punire chi ha fatto questa legge?»
«Non sarebbe giusto. Dovresti punire anche i cittadini che hanno eletto quei legislatori. E prima di loro i professori che non hanno educato quei cittadini, i filosofi che non hanno difeso e trasmesso i valori. Dovresti punire tutti. Probabilmente dovresti punire anche te stesso».
«E allora cosa dovrei fare? Lasciare che Principessa Boccadirosa cada sotto le nerbate del boia?».
«Puoi fare rinsavire il boia. Puoi fare di lui un essere umano. Non devi cambiare il mondo, perché le leggi che vogliono cambiare il mondo sono esse stesse la causa di tutte le atrocità. Puoi fare oggi un singolo atto di giustizia. Puoi oggi salvare questa tua simile».
Il giudice appoggiò la sfera sul fascicolo sottile. Nella stanza dei supplizi, il Minotauro slegò la Principessa e le chiese scusa in ginocchio. Una lacrima scese al carnefice e si perse nella barba. La ragazza corse fuori dalla stanza. In cortile c'era il suo bel metalmeccanico che la fece salire dietro di lui su una vecchia Yamaha. Di loro non si seppe più nulla, ma vi posso garantire che vissero per sempre felici e contenti.


Il vecchio giudice salutò l'amico e scese nella sua stanza. Chi l'avesse incontrato nei corridoio di marmo, lo avrebbe visto - per la prima volta da molti anni - sorridere sotto i cespugli di ortiche che gli coprivano ormai quasi tutta la faccia.

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