Alla fine ha vinto comunque l'esperienza. Ermal Meta, Maneskin e Fedez-Michielin sono il trio che si è giocato la finale di Sanremo terminata a un orario che al confronto Pippo Baudo finiva presto. Nel Festival della rivoluzione annunciata, del drastico ricambio generazionale, ha vinto (e convinto) soprattutto chi sulle spalle ha un bel po' di gavetta. Quasi tutti gli altri hanno fatto l'abbonamento a figuracce, stecche e imbarazzi. Di certo la platea vuota, il micro staff di tecnici e le dirette sterminate sono stati complici determinanti.
Però, come spiega la brava Danila Satragno, docente di canto jazz e pop al Conservatorio Verdi di Milano e vocal builder, «alcune performance sul palco sono state nettamente inferiori alle aspettative anche per artisti insospettabili», spiega dopo aver dato gli ultimi consigli a Ornella Vanoni, di anni 87, protagonista ieri all'Ariston di un favoloso medley di suoi successi e di una delicata Un sorriso dentro al pianto con Francesco Gabbani al pianoforte. «Il diaframma, questo sconosciuto!», aggiunge Satragno senza fare i nomi dei colpevoli (peccato). Ma l'edizione 70+1 ha definitivamente smontato anche nel pop la massima grillina dell'«uno vale uno». Ennò. Chi canta bene piace più di uno che canta male. E per fare bella figura mica bisogna essere Orietta Berti che ieri ha detto: «Ho sentito tanti stonare». Ad esempio Veronica Lucchesi de La Rappresentante di Lista non ha 55 anni di carriera alle spalle ma sbaglia pochissimo e ha personalità vocale da vendere. Insomma, per non fare errori da matita blu basta saper cantare, guarda un po'. Vedasi Gaia, una che sa cantare. Oppure Noemi. Per non parlare di Arisa, forse la più naturalmente intonata insieme con l'Orietta nazionale. Altrimenti ci sono «fuoricorso» come Bugo oppure Gio Evan che hanno il proprio stile e a loro non si chiede certo il belcanto. Però il Festival della Canzone Italiana dovrebbe garantire quantomeno uno standard minimo, anche senza pretendere anni di canto nel coro della Scala come è capitato a Malika Ayane. Anche ieri sera (primo ad uscire Ghemon, ultimo Aiello) tra l'apparizione di Federica Pellegrini e Alberto Tomba, le esternazioni di Giovanna Botteri, Umberto Tozzi contro l'«octopus» e Ibrahimovic versione Chuck Norris, c'è stata una bella processione di imprecisioni. Dopo la «generazione talent» che ha lanciato interpreti mediamente dotati, la nuova ondata rap e trap mette insieme una metrica che non richiede intonazione e totale inesperienza di grandi live. Giustamente si soffre la mancanza di spettacoli dal vivo, ma quanti dei Big in gara quest'anno sarebbero in grado di sostenere un lungo tour di concerti da due ore? Pochi dei giovanissimi, inutile negarlo.
Non a caso Satragno aggiunge: «Qui a Sanremo i più preparati vocalmente non hanno patito tanto i problemi tecnici». In poche parole, l'esperienza fa la differenza. Altrimenti è un tuffo senza rete. Oltre a Random, maglia nera di questo Sanremo, s'è vista (anzi, s'è sentita) una bella differenza tra le canzoni registrate in studio e quelle poi cantate dal vivo. Ad esempio l'esecuzione di Colapesce e Dimartino, che hanno portato uno dei pezzi più completi e vincenti, talvolta è sembrata frenare la corsa in gara più che avvantaggiarla.
E se Madame ha dimostrato una bella chiarezza di dizione, anche il (giustamente) quotatissimo Willie Peyote è sembrato qui e là troppo «sporco» nella pronuncia. Piccolo limite della vera rivelazione (al grande pubblico) di questo Festival, oltretutto premiato anche dalla critica.
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