SGARBI Questa Milano tutta da rifare

«Non voglio distruggere ma migliorare», dichiara il nuovo assessore alla Cultura del Comune. Che intende sollecitare la creatività e considera arte anche la moda e il design

«Cos’è questo?» dico stupito alla ragazza dell’archivio che rovescia sul mio tavolo un faldone di ritagli. «Sono le dichiarazioni dell’assessore alla Cultura Sgarbi» è la risposta. «Ma io avevo chiesto quelle dell’ultimo mese» replico. «Mi sono limitata all’ultima settimana» fa lei serafica.
Chiedo in segreteria il telefono dell’onorevole nonché nostro eminente collaboratore. Ricavo una dozzina di cellulari e un paio di numeri fissi. «Uno è quello della madre: c’è sempre. L’altro è quello suo di casa a Roma: non c’è mai». «E i portatili? C’è un ordine di preferenza o uno vale l’altro?». «Uno vale l’altro». Mi viene un’illuminazione. «Nel senso che squillano tutti a vuoto?». La segretaria sorride e allarga le braccia: «Buona fortuna» mi dice.
Essendo un cronista coi fiocchi in un paio di giorni, e senza disturbare la categoria delle mamme, riesco a entrare in contatto con una voce umana, come nella pièce di Cocteau. «Quando il professore è impegnato non risponde al telefono - mi spiega -. Però legge gli sms: se gli manda un messaggio poi la richiamerà». Confesso la mia incapacità nella messaggeria, sono un uomo all’antica, al telefono parlo, ma non scrivo. Compassionevole, la voce umana dice che ci penserà lei. Le spiego il motivo dell’intervista, «La Milano di Sgarbi», prende nota: «La contatterà direttamente il professore» conclude sicura. Pessimista, abbasso la cornetta.
Due ore dopo, il mio pessimismo viene punito e la voce di Sgarbi rimbomba al telefono. È in macchina, in autostrada, c’è traffico. «Sono nel fuoco dell’inaugurazione del Mantegna - si scusa -, un impegno dietro l’altro». Ci si accorda per un appuntamento subito dopo la conferenza stampa di palazzo Marino di lì a dopodomani. «È a mezzogiorno, me la sbrigo in mezz’ora, sono a sua disposizione sino alle tre, quando riparto per Mantova». Affare fatto, il cronista coi fiocchi che è in me si frega le mani soddisfatto.
Il giovedì della conferenza stampa, la mezz’ora sfora in un’ora buona. Ci sono i colleghi, ci sono le televisioni, ci sono i curiosi, gli ammiratori e le ammiratrici, c’è una parola per tutti. Alla fine, un piccolo corteo segue Sgarbi, in veste di cicerone, nei suoi uffici di assessore. Visitiamo la sala delle riunioni, lo studio, ci affacciamo al balcone che dà su piazza della Scala, una segretaria gli fa leggere e firmare qualche documento, un’insegnante di danza gli parla di un progetto artistico, un impresario gli presenta un attore, c’è il grande trasformista Arturo Brachetti che vuole una foto di gruppo, c’è una specie di press agent che è lì per vedere di risolvere una grana televisiva. Sembra che Sgarbi dovesse fare da giurato a una trasmissione di Enrico Papi e Federica Panicucci. L’unica cosa che si capisce è che c’è stato un diverbio, l’assessore ha scassato un computer, se n’è andato dopo essere stato cacciato, è stato cacciato dopo essersene andato. Di più non so, se non che, intanto, è passata un ’altra ora, la fidanzata di Sgarbi, che evidentemente lo conosce come le sue tasche, è andata a farsi un panino, il corteo forse è in via di scioglimento.
Adesso che siamo soli, e l’intervista può avere inizio, mi sento un po’ in imbarazzo. Costringerlo a una scrivania, mi sembra un’inutile cattiveria, farlo parlare ancora di Milano, un déjà vu. Nel faldone che ho diligentemente consultato, c’è persino un suo articolo, che prende una pagina di questo giornale, in cui spiega la sua rivoluzione estetica per Milano: cos’altro si può aggiungere? Il cronista coi fiocchi che sono io, non sa che pesci pigliare, ma è fedele alla consegna. «Tutte queste esternazioni - abbozzo -, questo dire la sua su tutto...». «È una polemica di scuola» ribatte lui tranquillo. Lo guardo e deve capire che non ho capito. «Sì - spiega pazientemente -, è nato tutto dall’aver risposto a un’idea del sindaco Moratti relativa all’opportunità di trasferire la scultura di Oldenburg da piazza Cadorna, sa, l’Ago e il Filo... Ora, a parte il fatto che da smantellare sarebbero soprattutto le tettoie di Gae Aulenti, si trattava semplicemente di suggerire una rivoluzione estetica per contrasto. In me non c’è nessuna pulsione distruttiva, anche perché, molto semplicemente, non si può. Il monumento a Pertini è orribile, però ce lo dobbiamo tenere, quello a Montanelli pure, sperando che qui magari nel tempo migliori la patina... Insomma, veniamo da un passato in cui tutto è stato fatto in maniera occasionale e il messaggio che si intende lanciare è che da ora si cambia, da ora si procederà in modo organico. Naturalmente, se non si possono fare degli interventi strutturali, si può riordinare l’arredo urbano e la sciatteria con cui è stato tenuto... E poi c’è il problema di San Lorenzo...».
Sulle colonne di San Lorenzo Sgarbi si è formato un’opinione che non è solo di carattere estetico. «Vede, in nessuna città un monumento antico è trattato così. Mi riferisco all’uso che ne fanno i giovani, un selvaggismo assurdo, un clima da occupazione... Non credo che basti e/o serva una cancellata per eliminarlo, e anche per questo ho chiesto di bloccarla. A me i giovani interessano molto, proprio perché l’elemento classico che hanno è la poca propensione alla retorica, come me. Ora, nei loro confronti, muoversi in una logica paternalistica o repressiva non ha senso. È la logica creativa che va privilegiata, come principio filosofico quasi. Non ero mai stato al Leoncavallo, mi ci ha portato una sua collega del Giornale, molto capace, Marta Bravi... Ecco, il Leoncavallo mi ha dato l’idea di una specie di pensionato con una serie notevole di murales non deturpanti, con delle pulsioni artistiche. Il giudizio sul dinamismo di un’estetica in una data epoca non è applicabile con una ratio ideologica o etica, ma fenomenologica. Giudichi cioè il dato estetico, ti fa schifo se la creatività è bassa, mediocre, volgare, non puoi applicargli il criterio morale o politico, non ha senso. Tornando al Leoncavallo, lo chiamo il modello Rimbaud, ovvero la possibilità di esprirmersi a dispetto del luogo, lo spazio conquistato come dinamo della euforia creativa. Lì, insomma, c’è una creatività che le strutture ordinarie non fornivano. Nel caso di San Lorenzo, bisognerà riuscire a sperimentare qualcosa del genere, creativo, appunto, non semplicemente distruttivo».
Prima di diventare assessore alla Cultura di Milano, Sgarbi era in corsa per fare l’assessore alla Cultura della Regione Sicilia. «Ho scelto Milano perché temevo la lentezza burocratica e quella psicologica, connaturata, dei siciliani, mentre qui ero sicuro che la vocazione dei milanesi a fare cultura usando le strutture dell’amministrazione e il denaro dei privati, la vocazione dalla quale nacque il Piccolo, per intenderci, fosse ancora viva. E non mi sbagliavo. Le civiltà si illustrano attraverso le testimonianze artistiche, ed è questa l’essenza della politica, cosa ben diversa dal metodo politico puro e semplice. Ora, questa vocazione, questo connubio, fa sì che se decido di fare una mostra, non mi preoccupo se il Comune ha o meno i fondi, so già che si troveranno i finanziatori pronti a metterceli. Kandinsky, Buzzati, Boccioni, Tamara de Lempicka, la stessa mostra su Primo Carnera, sono nate così».
L’elemento impreditoriale milanese affascina Sgarbi. «Prenda il mobile e la moda: che senso ha separarli dalla cultura? Dal primo parte il design, dalla seconda il segno, il disegno... Alla Fiera del Mobile affiancheremo dunque una mostra a Palazzo Reale, «Camere con vista»: dieci stanze per dieci decadi del Novecento, un secolo rivissuto attraverso gli interni delle abitazioni, gli stili, i cambiamenti... Alle sfilate, e sempre a Palazzo Reale, abbineremo gli stilisti riproposti come artisti, la loro creatività come opera d’arte. Due esposizioni, insomma, come legittimazione del valore culturale ed estetico di queste imprenditorialità, un modo per ricucirle indissolubilmente alla città».
Mostre, interventi di arredo urbano, fantasia giovanile. E dal punto di vista strutturale? Se ci teniamo il cubo di Pertini, avremo pur diritto a qualcosa di nuovo e di bello. «Intanto restauriamo la Fontana dei bagni misteriosi di de Chirico, che è un capolavoro. Poi faremo gli obelischi in memoria di Falcone e Borsellino, in piazza della Repubblica, di Calabresi in largo Cherubini. Tradizionali, nel decoro e nel dettaglio, come fa con senso dell’antico Ivan Theimer. Perché, vede, l’importante è il monumento, non a chi è destinato, il tema è il pretesto, non il contrario, altrimenti è solo retorica. Theimer ha un senso della storia e dello spirito delle cose e farà un’opera da ammirare, non qualcosa che deturpi e che però si sopporta in omaggio a ciò che rappresenta. Poi c’è il problema Brera, una grande pinacoteca, non bene allestita e male organizzata dal punto di vista pratico. Brera con la sua Accademia, naturalmente, uno spazio da riattribuire alla città. Penso a una doppia mostra con il Castello Sforzesco: Brera, Mantegna, Bramante, le sculture di Piatti... E ancora, il recupero di Palazzo Dugnani, come museo del ’700 e dell’800, San Paolo in Converso, con gli affreschi del Campi di fine Cinquecento, il periodo della formazione del giovane Caravaggio... E naturalmente, d’accordo con i sindacati e grazie a sponsorizzazioni, l’allungamento degli orari dei musei. Perché uno non può andare a vedere di sera , all’ora di cena, Il Cenacolo, appunto, di Leonardo?...».
L’ora è al termine, l’autista è pronto. «Le basta? - mi chiede Sgarbi -, se no viene con me in macchina, sino a Mantova, c’è anche la mia fidanzata, forse un altro amico...». Atterrito, dico che no, è più che sufficiente.

Ma è sicuro di poter fare tutto, che in Giunta sopportino questo ciclone? «C’è stata qualche polemica all’inizio, poi basta. Ma non mi sembra di chiedere la luna. Sono un assessore alla Cultura con dei pensieri che vuole realizzare. Tutto qui. Poi sono anche Vittorio Sgarbi, e su questo non posso farci nulla, nessuno può farci nulla».

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