Uno Shakespeare cupo e ridotto come piaceva a Carmelo Bene

Il celebre regista Georges Lavaudant propone una rilettura del «Riccardo III»

Uno Shakespeare cupo e ridotto come piaceva a Carmelo Bene

A due anni dalla morte, in occasione del Festival d’Automne 2004, l’Odéon di Parigi rese omaggio a Carmelo Bene con una serie di eventi a lui dedicati, tra cui la rivisitazione dei suoi testi teatrali Amleto, la veemente esteriorità della morte di un mollusco di Romeo Castellucci, tratto dal celebre Amleto di Carmelo Bene, e La rose et la Hache, rilettura del Riccardo III di Bene proposta da Georges Lavaudant.
Ora, in occasione del Festival dell'Unione dei Teatri d'Europa La rose et la hache arriva al Valle, con Georges Lavaudant nel ruolo di Margherita; Ariel García Valdés in quello di Riccardo, duca di Gloucester e poi Riccardo III; Astrid Bas (Elisabetta), Babacar M'baye Fall (Gatesby, il re Edoardo), Céline Massol (Lady Anna). Lo spettacolo andrà in scena questa sera alle 20.30.
Nel suo Riccardo III o l'orribile notte d'un uomo d'arme (Feltrinelli, 1977), Carmelo Bene omaggiava Shakespeare con «l’infedeltà che gli è dovuta». Nella pièce, tutto l’apparato di potere che sostiene la tragedia shakespeariana veniva rimosso da un Bene che tratteggiava un Riccardo vivo solo sulla scena, il cui ruolo di re lasciava posto a quello di attore, lasciato solo ad affrontare le tre forze femminili della pièce: Margherita, Lady Anna e Elisabetta. Due anni dopo, Georges Lavaudant (anche allora insieme a Ariel García Valdés) rivisitava il lavoro teatrale dell'artista italiano, a sua volta «fedelmente infedele»: nasce così La rose et la hache, titolo ispirato ad un aforisma di Cioran che definiva il teatro di Shakespeare come «l’incontro di una rosa e una scure».
«Carmelo Bene era un uomo potente e complesso, furbo e deciso, con il quale non era facile instaurare un rapporto intimo, anche perché, quando ebbi modo di conoscerlo meglio, era già malato - così lo stesso Lavaudant descrive il suo rapporto con Carmelo Bene -. Il suo teatro mi colpì soprattutto per il naturalismo, per quel suo stile alla Antonin Artaud. In questo spettacolo, non ci sono le sue scenografie, le sue immagini, la sua musica e non è stato possibile rievocarne la vocalità e la gestualità, che sono inimitabili. Quello che c'è di Bene è il suo modo di concentrare la pièce di Shakespeare e il passaggio costante dal tragico al grottesco».


«Per la scenografia - spiega il regista - ci siamo basati su giochi di luce e ombra mentre, sulla scena vuota, solo una tavola e duecento bicchieri colmi di vino con i quali il re, giunto alla fine del suo percorso e ripercorrendo la propria vicenda, gioca come fossero pedine, versando il contenuto rosso come il sangue da un bicchiere all’altro».

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