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Sharon ora attende la mossa palestinese

L’evacuazione dei coloni ebrei dalla Striscia di Gaza e da quattro insediamenti in Cisgiordania ha dimostrato che la tanto paventata guerra civile in Israele non ci sarà. Ma tutti ora si domandano che cosa succederà su tre fronti «caldi»: quello parlamentare, quello palestinese e quello - se si può chiamare fronte - del premier Ariel Sharon nei confronti del Paese. Nell'immediato probabilmente non accadrà nulla, con disappunto dei media che avevano trovato nello sgombero dei coloni (profumatamente pagati per andarsene) tutti gli elementi teatrali di un dramma umano, politico e religioso.
Nelle stanze dei partiti israeliani si discute di elezioni anticipate, ma non sembra per ora una strada percorribile visto che gli attuali parlamentari sono fra i più disprezzati nella storia politica del Paese. Essi sono infatti consapevoli che, se si andasse alle urne, almeno la metà perdererebbe i propri privilegi. Quindi ci penseranno almeno due volte prima di sciogliere la Knesset, che in Israele dipende dal voto parlamentare e non dal capo dello Stato o dal governo. Sharon continuerà così a guidare l’esecutivo, anche se i laburisti gli togliessero il sostegno (cosa improbabile nell'immediato), e lo farà finché lo riterrà opportuno (riprendendo il controllo del Likud contro Nethanyahu o creando un altro partito).
La vittoria sui coloni ha accresciuto l’autorevolezza - anche se non la popolarità - del premier israeliano, un’autorevolezza paragonabile solo a quella di Ben Gurion. E benché Sharon non sia amato dalla maggioranza del Paese (la cui unità è stata lacerata dall'evacuazione delle colonie), per la prima volta dalla scomparsa del padre della patria il popolo israeliano si sente governato da un leader. Insomma, è terminata quella fase confusa in cui la politica era concentrata sulla reazione agli attacchi palestinesi o influenzata dai sondaggi d’opinione. E questa autorevolezza - e la sua mutata immagine all'estero - Sharon la «spenderà» con estrema parsimonia.
Certo, molto dipenderà da come si muoveranno ora i palestinesi. Se riprendessero gli attacchi terroristici contro Israele, renderebbero a Sharon un grande servigio aiutandolo a respingere qualunque pressione esterna in favore di nuove concessioni territoriali. Non è escluso, poi, che le varie fazioni palestinesi possano aprire quel conflitto interno da tempo auspicato dal premier israeliano, e non solo da lui. La realistica, anche se cinica, lettura della crisi arabo-israeliana indica che una guerra civile palestinese è il miglior antidoto a quella potenziale israeliana e viceversa.
C'è inoltre un nuovo elemento di conflitto: è il timore che un contatto territoriale diretto fra palestinesi e giordani (in caso di ritiro israeliano dalla valle del Giordano) e fra palestinesi ed egiziani (in vista del ritiro israeliano non ancora avvenuto dal confine fra Gaza e l’Egitto) possa far straripare il radicalismo islamico nei due Paesi arabi. Questo spiega il monito di Re Abdallah II agli Stati Uniti di non cercare di influenzare l'avvenire della Cisgiordania senza il consenso del governo di Amman.

E spiega anche la decisione del governo egiziano di inviare due generali a Gaza per assicurarsi che l'addestramento delle forze di polizia palestinesi rinforzi l'Anp permettendole di fronteggiare gli estremisti islamici.

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