Lo show finale

Non sapevi mai se dicesse sul serio oppure ti turlupinasse con quelle parole usate, quasi improvvisamente e improbabilmente. Un giorno rispose così a un collega che gli aveva chiesto come avrebbe guidato il Genoa: «Questa è una domanda ad minchiam». Gli serviva per rispedire al mittente il quesito, tra le risate di qualche cortigiano, ma anche per fare intendere a chi gli stava di fronte che Franco Scoglio, messinese di Lipari, aveva frequentato le scuole, il latino era la sua migliore tattica insieme con «la quattro», «la cinque», che erano le formulette magiche per spiegare la «zona», il marcamento degli allenatori intelligenti.
Era uomo di mare, venendo da Lipari, profumo di zagare e di sole, per questo, risalendo i campi di calcio e l’Italia, Genova era diventato il suo porto migliore di attracco, il marinaio siculo era andato a portare gloria anche altrove, su e giù per il Paese, superando il mare e andando in Africa, sbarcando in Tunisia aveva reso illustre e più accurato il calcio di laggiù, portandosi appresso qualche dipendente. Era professore, l’ho detto, per titoli di studio e anche per come sapeva confortare i suoi pensieri, usando parole e immagini. Così stava facendo ieri sera, alla vigilia di un giorno particolare, quattro ottobre, san Francesco. Parlava su Primocanale di Genova, nella trasmissione Gradinata Nord, il sito del tifo al Ferraris di Marassi, dialogava al telefono con Enrico Preziosi, il presidente coinvolto nelle ultime vicende della squadra ligure. Ha reclinato la testa all’indietro, una volta, poi un’altra. Non era il segnale di resa dell’allenatore Scoglio, ancora fresco, giovane e reattivo, che non mollava il pallone mentre Preziosi cercava di controbattere alle tesi appassionate, passionali. Era l’uomo Franco, di sessantaquattro anni, improvvisamente un vecchio che lentamente, silenziosamente si stava ritirando, spegnendo.
Il Quinto Potere stava trasmettendo in diretta la morte, uno show unico, sognato e desiderato dalle jene contemporanee. Quando la notizia è arrivata a Milano e a Torino, a Roma e a Napoli stavano andando in onda uno, due, dieci trasmissioni di sport, di football, il lunedì della chiacchiera e delle baruffe. I teatri hanno improvvisamente gettato via i copioni, le violenze di Materazzi, lo strapotere juventino, la crisi della Roma e si sono accese le candele della compassione, volti di circostanza, frasi da archivio, la fotografia di Scoglio come un riflettore sul buio dei presenti. Gli piaceva la televisione, gli piaceva il confronto, così come amava la partita, uno contro uno, senza gettare mai la palla e la parola in calcio d’angolo, provocando e ricevendo in cambio pernacchie e imitazioni.
Avrebbe potuto allenare un grande club, se non si fosse fatto accompagnare da quel carattere a volte scorbutico, con quel sapere accademico, cattedratico. Non è il caso di celebrarlo come un grande. Chi ha assunto Scoglio sapeva di prendere Scoglio e basta, quello era e quello è riuscito a restare, giocando con il personaggio che si era furbescamente costruito, tagliandoselo addosso come un abile sarto.

Se oggi potesse commentare questo momento, queste parole, queste voci accorate, forse direbbe che è un mondo ad minchiam. E avrebbe ragione. Per questo ha deciso di appoggiarsi a una sedia, di reclinare la testa e di restare in silenzio.

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