Se Indro Montanelli fosse ancora tra noi, avrebbe commentato l'Affittopoli milanese con una delle sue battute più famose: «L'Italia non è una Repubblica fondata sul lavoro, ma sugli amici». E' senz'altro sbagliato generalizzare, e immaginarsi che tutti gli appartamenti di proprietà del Pio Albergo Trivulzio - e degli altri enti pubblici coinvolti, a cominciare dal Comune - siano stati assegnati in base a criteri arbitrari e a condizioni fuori mercato. Nel verificare, una per una, le varie situazioni, bisognerà distinguere tra i contratti più antichi, risalenti a prima ancora di Tangentopoli, quando a influenzare queste decisioni era il defunto Psi, da quelli successivi, che possono essere attribuiti ad altre amministrazioni. Bisognerà andare a vedere se davvero canoni anche scandalosamente bassi siano stati fissati perché c'erano fortissime spese di ristrutturazione, o se queste sono servite solo da scusa per nascondere le condizioni di favore. Bisognerà vedere, per ogni singolo affittuario, in base a quali criteri è stato scelto tra i tanti aspiranti, e se ha indebitamente scavalcato altre persone in lista d'attesa. Bisognerà accertare quali di questi contratti non sono stati adeguati - al momento del rinnovo - ai valori di mercato per favorire un qualche personaggio pubblico, o semplicemente per l'inefficienza e la sbadataggine degli amministratori del Pat. Bisognerà, in conclusione, fare assoluta chiarezza su tutte le situazioni sospette, (cercando anche una spiegazione sul perché inquilini dello stesso stabile e con metrature simili pagano affitti così diversi), evitando tuttavia di fare d'ogni erba un fascio e di procedere a una specie di caccia alle streghe immobiliare. Sarà, diciamolo subito, un lavoro immane, da certosini, per cui non so se una commissione d'inchiesta del Consiglio comunale sia attrezzata.
Sappiamo tutti che questa Affittopoli non è la prima, e non sarà certamente l'ultima: se si facesse una ricerca approfondita sugli immobili di proprietà del demanio, civile e anche militare, e dei vari enti previdenziali ne salterebbero fuori delle belle, sempre in linea con la battuta montanelliana. Ci sono già stati casi clamorosi, come quelli che a suo tempo coinvolsero D'Alema e De Mita. Proprio per questo, il caso si presta a una considerazione generale: se vogliamo evitare altri di questi scandali in futuro, sarebbe bene che gli enti pubblici non avessero un patrimonio immobiliare di cui poter disporre con discrezionalità. E' troppo facile, per chi li amministra, introdurre elementi di arbitrarietà nelle assegnazioni; è troppo tentante per i potenti di turno cercare di approfittarne; ed è troppo facile, anche a livello di funzionari, concedere canoni che un proprietario privato non si sognerebbero neppure e di eludere poi eventuali controlli. E' vero che il «tesoro» del Pat, valutato 450 milioni, e quello di molti altri enti (a cominciare da numerosi ospedali) non è il frutto di acquisizioni onerose e neppure di iniziative immobiliari, ma di lasciti di cittadini che spesso risalgono a molto tempo fa. Ma, proprio per queste caratteristiche, è difficile da gestire in maniera produttiva a beneficio dei cittadini indigenti, come si proponevano i donatori.
C'è da dubitare, tuttavia, che nel nostro Paese, con la nostra classe politica e la nostra burocrazia, ci arriveremo mai.
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