«Siamo sull’orlo di una Terza guerra mondiale»

«Le ideologie jihadiste sono come il nazismo e il fascismo»

Marcello Foa

Altro che ritiro, l’America manterrà le truppe in Irak, e all’occorrenza le aumenterà, per scongiurare il rischio «di una Terza guerra mondiale». Lo scenario, angosciante, è delineato dal comandante delle forze statunitenese in Medio Oriente, il generale John Abizaid; che, per il ruolo che ricopre, è chiamato a calibrare le parole, specialmente quando parla in pubblico, come è avvenuto l’altro ieri durante una conferenza all’Università di Harvard. Eppure l’uomo che comanda le truppe Usa in un’area che va dal Corno d’Africa all’Asia centrale non sembra aver dubbi: la principale minaccia alla pace nel mondo è rappresentata dall’islamismo radicale. «Le ideologie jihadiste come quelle di Al Qaida sono paragonabili al fascismo e al nazismo europei - avverte il responsabile del Comando Centrale (Centcom) del Pentagono -. Se non abbiamo il coraggio di affrontarle oggi, ci troveremo domani a combattere un conflitto su scala planetaria». La frontiera è Bagdad: se gli estremisti vincono «otterranno rifugi sicuri e una nazione da cui operare e sviluppare armi di distruzione di massa». Il messaggio è chiaro: bisogna rimanere in Irak e «stabilizzarlo per permettere a tutta la regione di resistere meglio» al fondamentalismo islamico.
Un messaggio reiterato da altri esponenti dell’Amministrazione Bush, come Andrew F.Krepinevich, dirigente del Centro di Valutazione strategico e di Budget degli Stati Uniti, secondo cui la più grande minaccia non è rappresentata più dall’insurrezione, ma dalla guerra civile «strisciante» tra sciiti e sunniti che, data la ferocia quotidiana degli attacchi, potrebbe un giorno destabilizzare il governo di Bagdad, allargandosi a macchia d’olio in tutto il Medio Oriente. E dunque «un ritiro del contingente internazionale non farebbe che rafforzare i terroristi», come denuncia il vicepresidente Dick Cheney, che non si è mai pentito di aver avallato l’invasione militare della primavera 2003.
Qualche ripensamento, invece, sembra averlo Tony Blair. In un’intervista concessa al canale satellitare in inglese di Al Jazeera, il premier britannico ha ammesso che la guerra «si è risolta in un disastro», sebbene non per colpa degli Stati Uniti né della Gran Bretagna, bensì a causa di «una deliberata strategia del terrore pilotata dall’Iran e da Al Qaida». Un’ammissione che, sebbene parziale, ha suscitato subito vivaci reazioni a Londra. «Finalmente il primo ministro accetta l’enormità della decisione presa con l’azione militare contro Saddam Hussein», dichiara il leader del partito liberal-democratico Menzies Campbell, da sempre contrario all’intervento. Quando il giornalista inglese David Frost, ingaggiato per l’occasione da Al Jazeera, ha chiesto a Blair se la violenza imperversante non fosse una prova evidente di come la guerra del 2003 contro Saddam Hussein fosse sfociata in una catastrofe, lui ha risposto: «Sì. Ma perché è stato così difficile in Irak? Non per qualche problema nella pianificazione, ma perché esiste una strategia deliberata. Da una parte c’è Al Qaida con i ribelli sunniti, dall’altra ci sono elementi delle milizie sciite sostenute dall’Iran. Si vuole creare una situazione nella quale la volontà della maggioranza per la pace venga sovrastata dalla volontà della minoranza per la guerra».

Ciò nonostante, il numero uno ritiene che solo dialogando con l’Iran e la Siria si possa stabilizzare la regione e dunque ha reiterato l’appello a questi due governi affinché giochino «un ruolo costruttivo». Un Blair oscillante che per la prima volta non sembra essere più in totale sintonia con l’America di George Bush.

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