Cronaca locale

La signora che ha sfidato cinque deserti

È milanese, abita a San Felice. Per i medici che l’hanno seguita durante le imprese, grazie al suo stile di vita ha l’età biologica di una trentanovenne

Gioia Locati

A vederla non diresti mai. Esile - sarà neanche cinquanta chili - bionda, elegante. Sembra una qualsiasi signora milanese della buona borghesia. Eppure Carla Perrotti, classe 1947, ha attraversato da sola cinque deserti, camminando in autosufficienza per trenta giorni filati. Sfidando sete e fatica, freddo e pericoli. Non lo ha fatto da ragazza, ma pochi anni fa, la prima impresa a 44 anni, l’ultima a 56 «tra la fatica fisica e quella mentale, la più opprimente è la seconda e solo la maturità ti permette di sopportarla».
Cinque deserti, quattro continenti, cinque record, razionando l’acqua e mangiando pillole. «Sono sempre stata l’unica donna. Al Taklimakan, in Cina, anche l’unica persona». Non lo ha fatto da sprovveduta ma dopo anni di allenamenti e controlli medici. Predisposizione sportiva e sete d’avventura sono nati con lei: «È la mia storia - dice -. Appartengo a una famiglia di sportivi, ero istruttrice di sub e di atletica, mio zio è Raimondo Bucher, pioniere della subacquea. Credo ci sia una predisposizione genetica, un “fattore Ulisse”. Mio figlio Max, oggi trentenne, e mio marito Oscar, medico, mi hanno sempre incoraggiata, le mie imprese sono sempre state avventure da sostenere, non un qualcosa di eccezionale. Max, a 6 anni, si immergeva con gli squali alle Maldive e oggi è uno sportivo che spazia dall’hockey sul ghiaccio alle gare di motociclismo. Ha imparato che sport estremo non significa buttarsi senza una logica ma prepararsi in modo serio, il rischio è quel passo in più che non devi fare». Per i medici dello sport dell’università degli Studi che l’hanno visitata, l’età biologica di Carla Perrotti (mix di massa muscolare, capacità aerobica ed età cardiovascolare) è inferiore a quella anagrafica di 20 anni. Insomma, la Perrotti ha il fisico di una «ragazza» di 39 anni. Ma attraversare i deserti non è solo questione di muscoli e di allenamento. «Facendo sport ti abitui alla fatica e a saper perdere. Ma non ho mai cercato di raggiungere il primato, non mi ponevo il problema di arrivare. Ogni volta che stavo per raggiungere il traguardo, rallentavo. Non volevo interrompere la grande sintesi che si era creata tra me e l’ambiente. Se “prendi” l’impresa con amore riesci ad arrivare, se la guardi sfidandola no. È questa una conquista della maturità, ho passato anni in gioventù assillata dal cronometro. Poi ho capito che sono importanti altre cose: dosare le energie, pensare molto, ad esempio usare tecniche di distrazione per non sentire il dolore».
Il momento più terribile? «Ho sofferto tanto la sete, leccavo le cuciture della tenda per non perdere neppure una gocciolina di condensa e poi bevevo l’acqua mescolata al dentifricio». Cosa ha imparato? «Ho capito che stare soli è una situazione di privilegio che ci aiuta a ritrovare la parte migliore di noi, quella che spesso giudichiamo una debolezza e che ci affanniamo a nascondere agli altri. Spesso indossiamo una maschera e dobbiamo scavare per far emergere i lati positivi. Tutte le persone che ho incontrato, i boscimani, i tuareg, i cinesi non mi hanno mai fatto paura. È gente che vive in isolamento, in condizioni al limite della sopravvivenza, semplice, genuina».
Progetti? «Mi piacerebbe fare qualcosa che serva a qualcuno, nelle lunghe ore di solitudine durante le traversate ho pensato molto, ad esempio a come potrebbe una persona cieca “sentire” il deserto. Pochi mesi fa per un banale incidente mi sono rotta un piede, l’esperienza mi ha fatto riflettere sul mondo dell’handicap. Il mio prossimo impegno potrebbe essere quello di accompagnare un cieco. Non mi piace pensare alle imprese fini a se stesse. Vorrei contribuire a trovare delle tecniche che aiutino chi ha problemi. Ognuno ha i suoi piccoli deserti da attraversare...». Non è finita: Carla Perotti ha raccontato le sue esperienze in due libri «Deserti» e «Silenzi di sabbia» (edizioni Corbaccio).

«Un altro mio sogno nel cassetto è quello di trasmettere le mie scoperte agli studenti».

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