«Con Silvio Orlando e Paolo Rossi rimetto insieme la vecchia band»

Gabriele Salvatores, classe ’50, regista di punta del nostro cinema e premio Oscar, è nato a Napoli ma vive da sempre a Milano. Il suo ultimo film dal titolo «Come dio comanda» tratto dal romanzo di Niccolò Ammaniti, è la storia del rapporto tra padre e figlio, ricorrente nei suoi ultimi film, anche se Salvatores in ogni pellicola cambia pelle e si rinnova con successo.
Lei ha cominciato al teatro dell’Elfo con “Comedians” negli anni ’80. Da allora qual è stato il cambiamento più evidente nel teatro?
«Ho cominciato a fare teatro nel ’72-’73, l’Elfo è nato subito dopo. Quello era un momento in cui il teatro era proprio “aggregazione” e forse anche oggi potrebbe ancora appropriarsi di questo ruolo. Il teatro allora aveva una funzione in cui la gente si ritrovava, come nei concerti rock. C’era il bisogno di stare insieme, c’erano spettacoli in cui veniva coinvolto il pubblico, a volte anche fisicamente. Attualmente, nell’era della televisione, il teatro potrebbe riprendersi questa funzione da rito collettivo».
Cosa ricorda degli anni passati con la band di “Comedians” e con comici allora sconosciuti come: Gino & Michele, Paolo Rossi, Silvio Orlando, Bebo Storti.
«Eravamo come una grande famiglia, mettere tutti d'accordo era stato difficile dal momento che non tutti si conoscevano. E così ci inventammo una squadra di calcio perchè il lavoro di “spogliatoio” e il lavoro sul campo di una squadra di calcio sono molto utili per “fare squadra”. Siamo rimasti tutt’oggi molto legati tra di noi e se qualcuno chiama e ha bisogno gli altri arrivano».
L’Oscar le ha cambiato il modo di fare cinema?
«A me è capitata questa cosa dell’Oscar che in qualche modo è una responsabità: dal giorno dopo tutti si aspettano qualcosa di meraviglioso da te ma tu sei uguale al giorno prima. Poi le cose certamente sono cambiate, si cresce quindi si diventa anche più sicuri di sé, e col passare del tempo forse anche un po’ più soli. E poi ognuno fa la sua strada, le sue esperienze, si cambia»
Da «Marrakesh Express» a «Quo Vadis baby» c’è stato un cambiamento di stile
«Sì, allora raccontavo storie di amici che partivano per viaggi improbabili con il concetto di non dichiararsi complici di una realtà che non gli piaceva. Si è parlato di una fuga, ma in realtà non era certo una fuga, nel senso di non volere responsabilità. Le ultime storie dei miei film sono legate quasi sempre alla famiglia. “Quo Vadis baby” è un rapporto difficile tra una figlia e un padre, un mistero all'interno della famiglia, addirittura un omicidio. Ultimamente mi propongono sempre storie di padre e figlio, anche se non sono io a cercarle, probabilmente perchè adesso ho l’età da padre.
Claudio Bisio e Diego Abatantuomo sono stati i due attori più ricorrenti nei suoi film cosa apprezzava di più di loro?
«Sicuramente la capacità di “giocare” con il comico pur tenendo sempre presente la tragedia e il lato drammatico della vita. I greci, nel teatro, legavano assieme le due maschere: la commedia e la tragedia. Entrambi sono attori poliedrici. Quando ho lavorato con loro ho sempre cercato di affidargli parti drammatiche o perlomeno particolari. Tanto è vero che in “Io non ho paura” Diego interpreta un personaggio diversissimo rispetto ai suoi abituali ed è bravissimo. Spero di non offendere nessuno ma i grandi attori comici sono sicuramente anche in grado di fare il dramma, ma non so se è vero il contario»
Diego Abatantuomo avrebbe dovuto fare una parte in questo suo ultimo film
«Sì, leggendo il libro di Ammaniti “Come dio comanda” Diego si era innamorato di tutti i personaggi che io poi ho tagliato e quindi è andata così. Però io con Diego tornerò a lavorare molto presto, tra l’altro lui è anche tornato a vivere a Milano e pur essendo di origini meridionali è molto milanese. È cresciuto al Giambellino ed ha conosciuto molti dei personaggi degli anni ’70»,
Lei è nato a Napoli. C’è qualcosa che accomuna Milano alla sua città d’origine?
«Nel ’50 c’era una forte immigrazione dal sud al nord e quindi oggi a Milano c’è una vera e propria popolazione composta di napoletani. Ma fra le due città c’è senz'altro un divario. Milano è una città aperta verso l’Europa. In realtà Milano è una città di interni, di cortili. Ci si incontra a casa, a cena da qualcuno. Mentre Napoli è una città di esterni, là è tutto aperto e si vive fuori. Milano è tutta da scoprire».
Quest’ultimo film si stacca da tutti i suoi film, come spesso è accaduto da un film all’altro
«In ogni film cerco di sperimentare qualcosa di nuovo e quindi cerco di fare quello che non ho ancora fatto, altrimenti mi annoio. Penso che nella vita sia meglio imparare delle cose nuove. “Come dio comanda” comunque è più speculare a “Io non ho paura” che rispetto ad altri film che ho fatto».


I suoi progetti?
«Vediamo. Bisogna sempre avere come idee cinque o sei cavalli di partenza e poi stabilire quale far partire per primo. Mi sento pronto per rifare una commedia e magari rimettere assieme la vecchia band»

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