Sinistra divisa tra slogan infami e pianti tardivi

Tira una brutta aria, sul nostro Paese, e l’ultimo attentato a Nassirya rende tutto più fosco, e doloroso, difficile da sopportare: ancora soldati italiani morti, ancora famiglie nel lutto, alle quali ci si prodiga a spiegare che il marito, il figlio non c’è più, ma che il nostro dolore è il loro, che è una verità e non lo è, perché non può esserlo, il marito e il figlio resteranno loro, a piangerli.
E fa rabbia che appena due giorni prima dell’attentato, il giorno della Liberazione, a Roma e altrove, si sia levato di nuovo quel grido, «10-100-1000 Nassirya» che a leggerlo le prime volte sugli striscioni portati in corteo, e a scorgerne le scritte sui muri, ci fece una impressione orribile, e sacrilega. E paura anche, perché a gridare quelle parole erano persone con la testa e il cuore già dall’altra parte, e che parte, poi. In seguito qualcuno ci ha fatto il callo, perché quel motto ha finito per diventare ospite abituale di ogni corteo organizzato non già da bande di estremisti e «gruppettari» come si diceva negli «anni di piombo», ma da partiti che finiranno per governarci. E c’è chi finge di non sapere, e di non capire.
Taluni giornali, dopo l’ultimo 25 aprile, che è stato anche quello della cacciata dal corteo del ministro Moratti e del padre reduce da Dachau, del rogo delle bandiere israeliane e il resto, hanno cominciato a domandarsi perché mai certi gruppi, ospiti che taluno definisce sgraditi ma sempre presenti, e tollerati, continuino a frequentare le manifestazioni della sinistra, a suscitare scandali destinati però a rinnovarsi alla prima occasione. Nei giorni scorsi Corriere e Repubblica rivolgevano alla sinistra gli stessi interrogativi. Il primo con un articolo di Gian Antonio Stella sintetizzato così nel titolo di prima pagina: Sinistra, la condanna è sempre postuma. E Repubblica nello stesso giorno ospitava un editoriale di Mario Pirani nel quale si notava che a ogni violenza e atto di intolleranza dai politici, sempre quelli, della sinistra, si leva «con automatismo burocratico il rosario delle flebili prese di distanza, delle lamentele, delle reprimende», naturalmente postume.
Osservazioni giuste, che però rischiano di restare anch’esse rituali e postume se non ci poniamo qualche problema. Perché quegli sciagurati che invocano tante Nassirya, o bruciano le bandiere di Israele, non vengono da un altro mondo: frequentano le nostre scuole, sono indottrinati in centri sociali ben noti, e in gruppi e gruppuscoli non isolati, ma spesso collegati e protetti. Dopo le devastazioni delle strade milanesi dell’11 maggio, i giornali pubblicarono i nomi dei circoli sociali dai quali erano partite le violenze, ben noti anzitutto alla polizia. Non sarebbe impossibile dunque un’opera di prevenzione, se la si volesse. Ma ogni questore o commissario sa che dietro certe sigle ci sono presenze politiche. Lo sanno Cofferati a Bologna, e il sindaco di Torino che ha visti all’opera no-Tav, no-global, no tutto. Un magistrato ha individuato, nelle invocazioni a tante Nassiriya, vedremo perché, un partito di governo. L’ariaccia di questi giorni sa di queste cose, anche perché le sfide che sono alle porte, e fra di esse il terrorismo che ammazza sulle spiagge dall’altra parte del Mediterraneo, sono in tanti a non vederle. E non è neppure, questo, il caso peggiore.


a.gismondi@tin

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