Mario Vargas Llosa è un signore di settantatré anni che accoglie il visitatore con l’aplomb e la serenità di un atleta che si prepara a sbalordirci col salto in lungo. Tanto è vero che ora, infaticabile com’è, sta lavorando alacremente a un libro sulla tragica epopea del Congo Belga prima della conquista dell’indipendenza. Come si intitolerà il nuovo romanzo? «Ancora non so», dice lui mentre sulle sue labbra si profila un riso silenzioso. «Posso solo fare il nome del mio eroe: Roger Casement».
Roger Casement?
«Un diplomatico britannico che, impressionato dalle atrocità compiute dai sudditi di Leopoldo II contro gli indigeni presentò a Londra un’interpellanza a favore dei diritti umani. Una campagna la sua che, anni dopo, gli costò la condanna a morte».
Un tema sociale di grande interesse che tuttavia si fa fatica ad attribuire al narratore di thriller mozzafiato come “Chi ha ucciso Palomino Molero?” o all’autore della “Zia Julia e lo scribacchino”, il più incantevole breviario della seduzione che sia mai stato scritto. Glielo dico e, appena accennato, ecco sulle sue labbra un altro riso che stavolta definirei caustico. È d’accordo, signor Vargas Llosa?
«Caustico lo sono di sicuro se lei ancor oggi si stupisce che la fantasia in letteratura mal si concilia con la passione civile. Per me non sono due parallele destinate a non incontrarsi mai, ma una è la ragione sufficiente dell’altra».
In che senso, scusi?
«Si è sempre detto che la letteratura, figlia della fantasia, ha ben poco a che fare con la cosiddetta realtà. Mentre è vero solo in parte. Ha mai riflettuto sul quesito fondamentale “perché si scrivono romanzi?”».
Me lo dica lei.
«La risposta è semplice. Si crea un’opera d’immaginazione per entrare in un altro cielo, un mondo diverso che poco o nulla ha a che fare con la realtà in cui viviamo. È un’esigenza dello spirito: ci fabbrichiamo un universo ideale in opposizione a quello con cui ogni giorno ci dobbiamo confrontare. La scrittura è la nostra panacea».
Scusi, ma se questa è la verità, ogni autore recluso volontario nel limbo della fantasia, dovrebbe essere lontano mille miglia dalla vita sociale…
«Assolutamente no. Chi scrive crea sulla carta la propria utopia. Se non di una società perfetta almeno di una società vivibile. E questo conduce a delle scelte. Si chiamino democrazia o il suo opposto, la dittatura».
Mi sta dicendo che è l’attività creativa a generare la passione civile?
«Nel mio caso personale senz’altro. Ma ogni scrittore, le ripeto, si comporta allo stesso modo».
Lei, mi perdoni, è considerato un paladino della libertà di pensiero per aver cambiato bandiera passando dall’ esaltazione giovanile…
«Per Sartre e la rivoluzione cubana fino al ripudio avvenuto nell’età matura? Non c’è contraddizione, mi creda. Un intellettuale di lingua spagnola non poteva non scorgere, alla fine degli Anni cinquanta, nell’avvento al potere di Castro il sorgere dell’illusione libertaria».
Che disgraziatamente…
«Ha prodotto ciò che sappiamo: la più feroce tra le discriminazioni possibili».
Deriva da questo il suo appassionato distinguo tra la vera democrazia e l’autentica repressione spesso mascherata sotto un liberalismo di facciata?
«Credo di averlo espresso a sufficienza non solo nei miei appelli pubblici, ma anche nei miei libri. Persino in quelli che a prima vista prescindono dal problema».
Me ne può fare un esempio?
«Prenda Il Paradiso è altrove, un romanzo che è strutturato come un saggio dove prendo in esame la vita di Gauguin, l’artista che rinnega una società ritenuta incivile per rifugiarsi nella civiltà dei primitivi e la vita di sua nonna Flora Tristan che, per cambiare la condizione della donna, abbandona la famiglia per darsi all’azione politica».
Ma questo che significa?
«Che nell’uno e nell’altro caso entrambi i miei eroi nonostante vivano in regime di libertà ne rinnegano i fondamenti scegliendo di lottare per un altro modello di vita. Trapiantando l’utopia nella realtà fattiva della loro esistenza che creano e modellano giorno per giorno».
La sua narrativa è dunque il terreno fertile del suo liberalismo?
«In un certo senso. Dato che la letteratura produce una tensione ossia quel desiderio di pace e libertà che in un libro coincide col Lieto Fine. Ma dov’è l’happy end nella realtà?».
Dove, signor Vargas Llosa?
«Nelle nostre aspirazioni, magari ingenue e velleitarie a oltranza, che tuttavia sono le sole a illuminare l’accidentato cammino della vita».
Va allora intesa in questo senso la sua affermazione che la letteratura è sovversiva?
«Indubbiamente».
Sovversiva e quindi portavoce del pensiero trasversale?
«Perché no? Ha mai pensato che ormai la destra europea evita e condanna quel fanatismo dogmatico che fino a ieri le era stato rimproverato? E che i veri settari oggi sono i sedicenti democratici di una sinistra sclerotica e inconcludente?».
Non mi dirà che è diventato un fan di Berlusconi e di Sarkozy…
«Distinguiamo. L’uno e l’altro sono giunti al potere dopo elezioni liberamente indette e l’uno e l’altro stanno dando stabilità ai rispettivi paesi nel solco della democrazia. Un assioma che fa riflettere».
Come mai allora sostiene che in un domani, scomparso il nostro leader dalla scena, il berlusconismo cadrebbe con lui?
«Perché Berlusconi è un grande uomo di spettacolo. Anzi lo spettacolo è lui stesso e non vedo nessuno in Italia in grado di sostituirlo sullo stesso terreno».
È ancora dell’opinione, come si evince da un libro come Elogio della matrigna, che l’eros è il test della civiltà di un paese?
«Sì, certo. Perché eros non significa soltanto sesso ma estetica ed arte. Musica, pittura, architettura derivano da questo impulso fondamentale».
Passiamo a un concetto-base come il carisma, vuole? Una dote che lei riconosce a Bossi ma non ad Angela Merkel. Vuole spiegarsi meglio?
«Il carisma in politica non può prescindere dal populismo. Ce l’aveva Giovanna d’Arco quando spiegava il suo bianco stendardo e ce l’ha Bossi quando arringa il popolo padano. La Merkel, un leader garante della democrazia, non ha e non può averlo».
Perché?
«Perché difende il libero mercato delle idee, come ha fatto Aznar in Spagna. Il carisma è un dono pericoloso che spesso e volentieri sfocia in bagni di sangue e nega in nome della libertà l’autonomia del pensiero».
Posso chiederle dove la porta ora questo pensiero?
«All’ubiquità. Un giorno a Londra e il giorno dopo a Parigi, tre ore dopo a Madrid e la sera stessa a Roma. L’intellettuale, mi creda, è un perpetuum mobile».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.