Politica

La sinistra torna pacifista e suona la ritirata

Roberto Scafuri

da Roma

Solidarietà ai feriti, preoccupazione per l’aggravarsi della situazione in atto già da mesi. L’attentato ai militari italiani in Afghanistan «appartenendo all’ordine delle cose non sorprende», dice il ministro della Difesa, Arturo Parisi. E il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, seguendo l’evolversi della situazione, ricorda che «il rischio purtroppo è parte di queste missioni». Ma i «fasti» ottimistici seguiti alla missione di pace in Libano si scontrano con l’ennesima, anch’essa non sorprendente, diatriba che si scatena nell’Unione. La sinistra radicale preme per un ritiro del contingente - magari «spostando le truppe in Libano» come propone il leader verde Alfonso Pecoraro Scanio -; l’Ulivo ribadisce, con il leader della Margherita, Francesco Rutelli, che è del tutto «impensabile un ritiro di fronte all’offensiva dei talebani. Le difficoltà non ci possono indurre a pensare alla scorciatoia del rientro... ».
Ma è pur vero che il governo sta pensando, di fronte all’incrudelirsi della situazione (che aveva indotto Parisi a immaginare persino un rafforzamento del contingente, poi smentito), a svolgere con maggiore determinazione un ruolo internazionale. Lo conferma da Israele il ministro degli Esteri Massimo D’Alema: «La situazione è estremamente preoccupante, da tempo abbiamo detto che è necessaria non solo un’azione militare, ma un’iniziativa politica per cercare una svolta nel processo di pacificazione dell’Afghanistan». Superfluo dire che una «libanizzazione» del teatro di guerra afghano sembra una strada difficilmente percorribile, vista la diversità dei contesti strategici e l’impegno profuso dagli angloamericani nel Paese che ospitava Bin Laden e il nucleo storico di Al Qaida. «Ci mancherebbe solo che oggi la comunità internazionale, alla vigilia dell’anniversario dell’11 settembre, immaginasse di favorire il ritorno dei talebani - aggiunge Rutelli -. Sappiamo che la situazione è difficile e rischiosa, sappiamo che ci sono gli errori degli ultimi anni da correggere, ma siamo un Paese serio e abbiamo deciso nel 2001 assieme alla comunità internazionale che l’Afghanistan dovesse essere liberato dai talebani... ».
La linea del governo è allora quella di «non mostrare cedimenti», come sottolinea il sottosegretario alla Difesa, Lorenzo Forcieri. Mantenere gli impegni e semmai «sostenere ulteriori iniziative diplomatiche e politiche», come insiste il capogruppo dei senatori ds, Anna Finocchiaro. Eppure, dice il segretario di Rifondazione Franco Giordano, una situazione così compromessa rende improponibile qualsiasi ipotesi di invio di ulteriori truppe. «Le nostre posizioni sono note: siamo per il ritiro della missione. Oggi però prevale la preoccupazione e la solidarietà verso i soldati e le loro famiglie», aggiunge Giordano: una linea prudente seguita dal capogruppo dei senatori, Giovanni Russo Spena, e da altri esponenti di Prc. Che ricalca il giudizio espresso a caldo dal presidente della Camera, Fausto Bertinotti: «L’Afghanistan è un territorio a rischio che va inquadrato in quella spirale di guerra e terrorismo che incombe sul mondo: quello che l’Italia sta facendo, proponendosi anche diversamente dal passato come forza di pace, è qualcosa che si può e si deve fare sempre di più». Molti esponenti della sinistra radicale però non rinunciano a pensare che «sia ora di pensare a altre forme di intervento» (Elettra Deiana) e ripristinare la commissione di monitoraggio già prevista a luglio (Francesco Martone). Il Pdci invece chiede tout court il «ritiro immediato»: Marco Rizzo e compagni denunciano il «fallimento della missione» e insistono affinché il governo «prepari il decreto di ritiro». «Altro che rinforzi, si è precipitati in una guerra a tutti gli effetti, bisogna andar via al più presto» è il giudizio dei verdi Cento, De Petris e Bulgarelli. Il capogruppo dei deputati, Angelo Bonelli, sottolinea gli alti costi, umani e materiali (oltre un miliardo di euro) della missione, per rispondere a Rutelli che «è bene non avere posizioni rigide sulla presenza militare in Afghanistan».

«Bisogna uscire dall’ideologia e guardare le cose come stanno - dice Pietro Folena -: l’Afghanistan brucia, la guerra si sta estendendo, i nostri militari sono bersagli e non possono, in queste condizioni, svolgere alcun ruolo di pace».

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