La Siria trema, prove di guerra alla frontiera

Il Gabinetto di sicurezza dello Stato ebraico boccia l’escalation militare: i riservisti servono a garantire la continuazione delle operazioni in corso

Gian Micalessin

da Haifa

Damasco trema, Israele la rassicura, ma la grande paura siriana impensierisce. L’incubo è quello di un’imprevista e non voluta estensione del conflitto. «Non abbiamo alcun interesse a uno scontro con la Siria», ha dichiarato ieri alla radio militare israeliana il ministro della Difesa Amir Peretz. La dichiarazione, seguita da un ulteriore messaggio riservato, serve soprattutto a impedire una mossa imprevista del regime di Damasco capace di innescare un nuovo fronte. L’intelligence militare israeliana e il Mossad registrano da giorni un crescente stato d’allarme tra le fila dell’esercito siriano. Dall’altra parte i comandi militari siriani sostengono di aver notato la riattivazione di alcuni avamposti israeliani abbandonati da molti anni sulle alture del Golan.
Nella valle della Bekaa libanese la situazione è ancor più esplosiva. Lì le forze speciali israeliane sono costantemente impegnate in operazioni sul confine per bloccare nuovi rifornimenti a Hezbollah. Molte di quelle incursioni si svolgono a cavallo, se non oltre la linea di frontiera, e contribuiscono, nonostante il silenzio di entrambe le parti, a mantenere alto il nervosismo di Damasco.
A gettare benzina sul fuoco di questa già esplosiva situazione ha contribuito la richiesta di Tsahal di estendere le attività militari oltre il confine di Damasco. L’escalation militare è stata immediatamente bocciata dal Gabinetto di sicurezza israeliano, ma ha inevitabilmente contribuito ad accrescere le preoccupazioni di Bashar Assad e dei suoi generali. Poche ore dopo - come ha rivelato la televisione libanese Future Tv, di proprietà della famiglia Hariri - l’esercito siriano ha cominciato a rafforzare le posizioni sul confine con il Libano scavando trincee e costruendo nuove fortificazioni. A quel punto il ministro della Difesa israeliano Amir Peretz ha dovuto ribadire che la mobilitazione di 15mila riservisti, approvata giovedì dal Gabinetto di sicurezza, è destinata unicamente a garantire la continuazione delle operazioni e l’avvicendamento di forze sul fronte libanese. «La mobilitazione serve solo a consentire l’addestramento di quelle unità e a metterle e in condizione di combattere in caso di dispiegamento», ha detto Peretz, preoccupato che il richiamo su larga scala possa esacerbare le paure del regime di Assad spingendolo a reazioni incontrollate.
I piani dei generali israeliani per colpire Damasco e sigillare i confini del Libano non sono un mistero. Secondo lo stato maggiore di Tsahal solo quella mossa permetterà di bloccare i rifornimenti di armi e una possibile fuga dei vertici di Hezbollah. Quei piani sono diventati richiesta esplicita non appena il Mossad e l’intelligence militare hanno confermato l’arrivo a Damasco del segretario generale Hassan Nasrallah. Un arrivo seguito dall’incontro con il presidente Assad e il capo del Consiglio di sicurezza iraniano Alì Larijani. Secondo l’intelligence israeliana l’incontro è servito a definire le linee di comportamento per la seconda fase della guerra e a confermare il via libera iraniano al lancio di missili a lunga gittata su Israele. I primi razzi di quel tipo - «missili mai visti prima», come ha sottolineato la polizia israeliana - hanno raggiunto ieri Afula, 47 chilometri a Sud del confine con il Libano.
Nonostante questi elementi il governo di Ehud Olmert non ha nessuna intenzione di attaccare la Siria. E non per il timore di disperdere le proprie forze. In questo momento combattere una guerra convenzionale con un esercito siriano dotato di armamenti russi vecchi di oltre un trentennio, di un’aviazione priva di manutenzione e di carri armati obsoleti sarebbe assai più facile che avere la meglio su Hezbollah. Ma Israele non può concedersi il lusso di combattere quella guerra. Umiliare un’altra volta la Siria significa mettere a rischio il già traballante regime di Bashar Assad. Agevolarne la caduta significa scoperchiare il vaso di Pandora della successione.

Una successione disordinata, imprevista e pericolosa capace di aprire un nuovo fronte d’instabilità, di collegare lungo un’unica fascia tellurica il confine settentrionale d’Israele a quello iracheno, di far tracimare e mescolare in un’unica pentola a pressione il fondamentalismo sunnita e quello sciita.

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