Cultura e Spettacoli

Siti scrive bene ma l’economia non fa per lui

Nel 1956, in quella New York che più di un decennio prima l’aveva accolto dopo la fuga dall’Europa dei totalitarismi, un ormai settantenne Ludwig von Mises scrisse un testo ancora oggi prezioso: La mentalità anticapitalista. Quell’aureo volumetto viene subito alla mente di fronte all’ultimo romanzo di Walter Siti, intitolato Resistere non serve a niente (edito da Rizzoli), in cui trova conferma un dato importante: e cioè che in tanti casi la civiltà occidentale ha preservato i propri spazi di mercato non grazie agli intellettuali, ma nonostante loro. Per molti tra quanti insegnano nelle università, producono film e - appunto - scrivono romanzi, le relazioni volontarie che hanno luogo tra quanti negoziano beni e denaro sono qualcosa di riprovevole in sé. La celebre formula di Bertolt Brecht secondo cui sarebbe un crimine non già assaltare una banca (derubare il prossimo), ma crearne una (ossia predisporre servizi finanziari che aiutino i risparmiatori a gestire i loro capitali e li facciano avere a chi ha idee e voglia di lavorare, ma è privo di risorse), gode di grande prestigio nell’intellighenzia occidentale.
Siti ha inventiva e doti di scrittore. D’altra parte, la qualità artistica non dipende dalla capacità di essere un buon analista di questioni sociali, come conferma il fatto che le curiose teorie economiche di Ezra Pound, fiero nemico dell’usura, non pregiudicano il valore delle sue opere.
In merito a quanto Siti afferma, è davvero sbagliato lasciar intendere che poiché la prostituzione è uno scambio, si potrebbe derivarne l’idea che lo scambio è una prostituzione. La falla logica è evidente a chiunque, come se si dicesse che siccome i danesi sono europei, gli europei sono danesi. Per giunta, condannare lo scambio vuol dire condannare la socialità stessa. La relazione mutualmente vantaggiosa che due giovani sviluppano, in internet, quando utilizzano eBay per vendersi un libro non ha in sé nulla di immorale. Senza leggersi le oltre mille pagine di Human Action di Mises (straordinario trattato sulla complessità, anche morale, delle relazioni di scambio), è sufficiente osservare gli affreschi senesi di Ambrogio Lorenzetti sugli effetti del Buongoverno per comprendere quale ruolo occupi.
Per di più, l’alternativa allo scambio non è il dono, che comunque esige proprietà privata e libertà negoziale. L’alternativa allo scambio è la sua proibizione a opera di sistemi criminali simili a quelli che affascinavano Brecht: un interdetto che nega l’altro nella sua dignità di persona. Assai bizzarramente, dedicando grande attenzione a mafiosi e truffatori nel romanzo si attacca l’ordine economico basato sulla proprietà privata, ma in tal modo si ricade in quello che potremmo chiamare «il paradosso di Proudhon», il quale un giorno sostenne che la proprietà è un furto: senza tener presente che ladri e furti rinviano alla proprietà e che non si può parlare degli uni senza riconoscere l’esistenza della seconda. Se è contestabile la fatwa lanciata da Siti contro lo scambio e la libertà economica, stesso discorso vale per la condanna del denaro. Dove manca il denaro, non c’è alcun orizzonte di autonomia e alcuna possibilità di scelta, ma solo il trionfo delle logiche del clan.
L’aveva compreso perfettamente il maggiore filosofo ebreo del Novecento, Emmanuel Lévinas, che nel 1986 aveva sottolineato che «nel denaro non si può mai dimenticare questa prossimità interumana, trascendenza e socialità che già l’attraversa, da unico a unico, da straniero a straniero». L’elemento ebraico qui non è questione da poco, poiché in varie occasioni è proprio questo popolo che, anche a seguito dell’interdetto di possedere terra, meglio e più di altri ha sperimentato gli spazi aperti di un’economia finanziaria, per sua natura proiettata verso il nuovo. Si può usare il denaro per avvilire se stessi e gli altri, come racconta Siti e insieme a lui larga parte della cronaca? Certo.

Ma questo ci dice ben poco sulla dimensione positivamente finanziaria dell’esistenza, esattamente come non si può condannare la letteratura quando ci s’imbatte - e non è questo il caso - in libri senza qualità.

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