Le «smemorie» di Casa Savoia

Egregio Dottore, tengo molto a chiarire, in riferimento alla richiesta di danni e rimborsi dallo Stato italiano, che non è stata avanzata da Casa Savoia, come dicono i giornali e la televisione, ma da Vittorio Emanuele e figlio, che di Savoia portano solo il cognome. L’unico che ha sofferto l’esilio fino all’ultima goccia è stato Umberto II. Per gli altri, gran bisboccia all’estero non si scrive come esilio. Senza dire che non convince affatto il continuo e strumentale riferirsi a finalità benefiche, la cui effettiva consistenza è sempre lasciata indeterminata e incontrollabile, come ad esempio avviene negli Ordini dinastici gestiti da loro. Ma forse Lei ricorda come me che avevano rinunciato con rumore a tante pretese pur d’entrare in Italia?


Mario Cervi e Pietrangelo Maurizio hanno ampiamente riferito e commentato le rivendicazioni in moneta sonante di Emanuele Filiberto e non meriterebbe parlarne ancora se non fosse che con una certa tracotanza il ragazzo Savoia insiste a tornarci sopra. Così com’è verrebbe voglia di chiedere al padre di tenere a freno il suo rampollo. Ma credo che lei concordi, caro Volpi, nel ritenere Vittorio Emanuele il meno adatto ad una simile bisogna, per cui tocca rassegnarci. Tocca rassegnarci a questa continua, rotocalchistica e non di rado sguaiata opera di demolizione dell’immagine di una casata che avrà sì sulla coscienza, come scrive Mario Cervi, delle corresponsabilità che si tradussero in lutti, pene, umiliazioni e spoliazioni, ma che resta parte irrinunciabile di quell’«epos» che concorre a formare l’identità italiana. Tutto il lavoro speso dalla principessa Maria Gabriella per preservarne e tenerne viva la secolare memoria, tutto l’impegno del duca Amedeo di Savoia per rappresentarla con rispettabilità e discrezione viene dunque irriso dalle sceneggiate, dalla insistente presenza sulle pagine delle riviste illustrate e dagli scivoloni giudiziari di due gaudenti che hanno l’audacia di appellarsi ai «danni morali» e alle «sofferenze» patite a causa dell’esilio ginevrino per chiedere allo Stato italiano e quindi ai suoi cittadini un risarcimento di 500 miliardi di lire.
Ci deve essere una questione personale fra Vittorio Emanuele e la propria firma apposta ai documenti. Della lettera con la quale il padre lo ammoniva di non violare la prerogativa regia del previo assenso al matrimonio (come poi Vittorio Emanale fece sposando Marina Doria) se non voleva decadere «da qualsiasi diritto di successione come capo della Casa di Savoia» perdendo titoli e rango che sarebbero passati «immediatamente a mio nipote Amedeo, Duca d'Aosta», lettera che porta in calce: «Per presa conoscenza, Vittorio Emanuele», l’interessato afferma di non saperne niente. Lo stesso, stando ai fatti, per un’altra lettera del luglio 2002 con la quale così assicurava all’allora presidente Ciampi: «È mia intenzione ritirare il ricorso, che presentai avanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo, una volta approvata la legge costituzionale abrogativa dei due primi commi della XIII disposizione transitoria e finale della Costituzione».

E s’è visto quanto conta, per Vittorio Emanuele, la firma e la parola data: corsa contro il tempo perché il ricorso non decada per scadenza dei termini e richiesta di 260 milioni di euri. Sull’unghia (che abbia ragione Calderoli, caro Volpi, a invocare una legge che li rispedisca in esilio?).

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