
«Le masse saranno sempre più sotto la media. La democrazia arriverà all’assurdo di rimettere la decisione sulle cose più grandi ai più incapaci, conseguenza del dispensare l’ignorante di istruirsi, l’imbecille di giudicarsi, il bambino di essere uomo e il delinquente di correggersi. Non riconoscere la disuguaglianza di valore, merito, esperienza, cioè la fatica individuale, culminerà nel trionfo della feccia e dell’appiattimento. L’adorazione delle apparenze si paga». Questo testo nella sua bruciante attualità è incredibilmente stato scritto quasi 150 anni fa, nel 1871, dal filosofo e poeta svizzero Henry-Frédéric Amiel e si trova in Frammenti di diario intimo, una monumentale raccolta postuma dei suoi scritti (17.000 pagine addirittura). Quello che sento in Confessionale, quello di cui accusiamo l’attualità, quindi, è la punta di un iceberg, è il risultato di una colpa antica. Ammettere questo non crea un alibi, ma innesca una responsabilità ad alzare il livello. Spesso ho citato il parroco della mia infanzia, don Giuseppe, ma gli devo molto e sono a lui legato. Quando da ragazzo mi confessavo da lui, come penitenza non dava una manciata di «ave marie» perché - commentava - «la preghiera non è mai una penitenza, è una fonte di energia». Con l’idea che l’incontro con la misericordia di Dio dovesse smuovere non solo i sentimenti, ma anche e soprattutto il cervello e le scelte, ci affidava un libro da leggere. Ho nitida nella mente l’immagine nel suo confessionale della borsa piena delle monografie di Fabbri Editore sui pittori, volumi bianchi grandi nella superficie ma piccoli di spessore. Oppure erano racconti, monografie di personaggi famosi, semplici romanzi. Man mano si cresceva, aumentava lo spessore del volume. Pagine rigorosamente «sue», prima lette da lui e che a lui dovevano tornare, non per ansia di proprietà da difendere, ma per la sua premura di far circolare quelle idee dandole a qualcun altro. Recentemente ho ritrovato lo stesso principio del mio vecchio parroco in una modernissima proposta della prestigiosa Università di Harvard a Cambridge, Massachusetts, negli Stati Uniti d’America che dice: «a good leader is a good reader», un buon leader è un buon lettore. La mia riflessione, oggi, mi ha portato all’importanza della scelta delle parole. Spesso il livello si abbassa perché non sappiamo più definire i concetti, esprimere le sfumature del pensiero, elaborare in modo critico quello che pensiamo dentro di noi. Il numero di parole utilizzate è limitatissimo. Il vocabolario di un italiano medio non arriva a 1.000, su oltre 200.000. Quanto più conosciamo una materia o ci appassiona, invece, tanto più si acquisisce un lessico ampio e specifico. La rarefazione di tempi verbali come il passato remoto o il congiuntivo limita il pensiero al presente. La generalizzazione del tu senza curare distinzioni o la scomparsa della punteggiatura causano appiattimento. Studi hanno dimostrato che spesso la violenza deriva dall’incapacità di mettere parole sulle emozioni e quindi dal sentirsi incompresi. Nella storia le dittature hanno ostacolato il pensiero e limitato la libertà riducendo il numero delle parole e torcendone il significato. Come avere idee critiche senza il condizionale? Abbiamo a disposizione una tavolozza con miriadi di colori in ogni sfumatura, ma dipingiamo quadri con poche tinte cupe, abbandonando i pennelli per i più facili pennarelli. Siamo più esperti in malessere che in benessere, in emozioni depotenzianti che in emozioni potenzianti. Da qui ne deriva un «effetto delega» a chi ha più strumenti (ad esempio gli «influencer» di nome e di fatto). È differente la percezione di dover affrontare una situazione «difficile», rispetto a una «impegnativa». «Tu mi hai offeso!» è diverso da «io mi sono sentito ferito». Un conto è dire «ho un figlio», altro è «sono genitore». La parola «problema» potrebbe essere «situazione da risolvere, sfida, possibilità di crescita». Di fronte a un inconveniente una sfumatura aiuta a preoccuparsi meno e a orientarsi alle soluzioni piuttosto che ai guai.
I termini che si utilizzano per descrivere un’esperienza diventano la nostra esperienza. Non ci troveremmo così spesso a bofonchiare «che peccato!», non pagheremmo la dipendenza all’apparenza, se capissimo che se cambi il tuo modo di vedere le cose, le cose intorno a te cambiano.